I significati racchiusi nel sigillo dei Templari
La Lettera G n° 10, pp. 83-103
(Estratti)
Proseguendo nella nostra serie di studi dedicati all’Ordine del Tempio e ai suoi aspetti esoterici, affronteremo la questione del cosiddetto «sigillo templare», su cui gli storici si sono soffermati a più riprese sviluppandone via via interpretazioni differenti. Diciamo subito che una tale diversità non comporta necessariamente alcuna contraddizione, come in un primo momento si potrebbe essere indotti a credere, atteso che il genuino interesse di ogni ipotesi risiede nel rendere conto, per l’appunto, di uno o l’altro dei molteplici significati legati al simbolismo del sigillo. In questo senso, possiamo anticipare che nella maggior parte dei casi le varie interpretazioni si rivelano perfettamente complementari, come mostreremo nel corso del presente articolo. Ciò nonostante, giacché nella prospettiva di questa rivista la cosa più importante è stabilire qual è la portata iniziatica del simbolismo, da ultimo prenderemo in considerazione ciò che riteniamo essere tale, e che non rientra, per quel che ci è dato sapere, fra i vari casi presentati dagli studiosi.
Fra i diversi sigilli impiegati dai dignitari templari nell’arco della vita dell’Ordine, intendiamo occuparci del più noto in assoluto: quello in cui compaiono due cavalieri in groppa a uno stesso cavallo. A proposito di questa raffigurazione, sotto un certo aspetto singolare, è innanzi tutto necessario sbarazzare il terreno da un equivoco piuttosto strampalato, secondo cui il sigillo costituirebbe un’aperta proclamazione di omosessualità.
Se abbiamo deciso di spendere qualche parola a questo riguardo, è specialmente a causa della notevole diffusione che tale voce ha trovato in quel mezzo non sempre affidabile che è Internet. Ivi viene riferito, peraltro senza citare alcuna fonte – ma forse a seguito di un’affermazione contenuta in un’opera di Paul de Saint-Hilaire, Les Sceaux Templiers et leur symboles –, che il sigillo in questione fu usato nel processo ai Templari come «prova» di quelle pratiche sodomitiche con cui i loro nemici decisero d’imbastire le accuse contro l’Ordine. Di là dal problema della fondatezza di quest’affermazione[1], ciò che a noi appare inspiegabile è il legame stesso fra le due cose. In effetti, quale nesso logico c’è fra la rappresentazione dei due cavalieri e la loro presunta omosessualità? Gira e rigira, non ne riusciamo a vedere proprio nessuno. E ci chiediamo: a chi mai passerebbe per la mente, oggi, vedendo sfrecciare due uomini in moto, che si tratti di omosessuali?… Eppure, constatiamo che proprio ai nostri giorni lo stereotipo dei «due cavalieri» viene considerato, da alcuni, come un «classico» modello di omosessualità; un esempio sufficientemente rappresentativo di una tale ossessione è quello offerto da Didier Godard, il quale ha concepito l’idea «spiritosa» d’intitolare la sua «storia gay» del Medioevo Deux hommes sur un cheval. L’homosexualité masculine au Moyen Âge !
Ricordando la velenosità delle calunnie che già verso la fine del Duecento venivano fatte circolare contro i Templari[2], è in ogni modo difficile allontanare senza esitazioni il sospetto che pure l’interpretazione in oggetto ne avesse potuto far parte; anche perché, chi andava preparando – con questi e altri mezzi – l’annientamento di tale organizzazione iniziatica, non badava troppo, evidentemente, né alla veridicità delle accuse né alla loro congruenza, pur di raggiungere lo scopo prefisso. In una simile situazione, viene da pensare che l’accusa potesse essere stata escogitata per colpire ulteriormente l’immaginazione già abbondantemente condizionata del popolino… Comunque stiano le cose su quest’ultimo punto, chiuderemo la questione facendo notare al lettore come la raffigurazione dei «due cavalieri» è a ogni buon conto suscettibile di ricevere piena giustificazione, anche in una prospettiva meramente exoterica, con il solo rifarsi alla raccomandazione evangelica – rivolta dal Cristo ai suoi discepoli – di procedere a due a due: «ite bini bini»[3].
Occupiamoci ora di cose più serie. Esaminando alcune opere storiche in nostro possesso, abbiamo rilevato che l’ipotesi da cui invariabilmente partono i loro autori è quella che fa del sigillo templare una specie di emblema della povertà. Una tale uniformità di vedute proviene, sicuramente, dal fatto che tutti quanti attingono a una sola e stessa fonte, cioè, in questo caso specifico, alla seguente affermazione risalente agli antichi cronisti inglesi: «quell’anno nacque l’ordine dei templari, che erano dapprima così poveri che due frati cavalcavano un unico cavallo, fatto che oggi è raffigurato nel sigillo dei templari per esortare all’umiltà»[4]. Questa spiegazione, così formulata, non poteva certo resistere alla critica degli studiosi, i quali infatti ne sottolineano l’inverosimiglianza, mettendo in evidenza il fatto che, per riuscire ad adempiere in modo conveniente al proprio dovere, un cavaliere doveva disporre quantomeno di due o tre cavalli, come era del resto previsto nella stessa Regola templare. Perciò, Peter Partner avverte che «non bisogna prendere alla lettera l’idea della condivisione del cavallo»[5], proponendo di leggerla invece come un riferimento alla povertà e alla fratellanza praticate nel Tempio; Malcolm Barber, il quale è peraltro favorevole all’ipotesi «che sia stato l’ascetismo cistercense, veicolato da san Bernardo […] ad aver contribuito a questa autorappresentazione»[6], tende pure lui a credere che la raffigurazione dei due cavalieri debba ricollegarsi alla povertà intesa in questo senso. A rendere più esplicita l’idea ci pensa Barbara Frale, la quale, esaminando – giustamente – il problema nel contesto originario in cui nacque il sigillo, precisa: «Agli inizi del secolo XII quel concetto di povertà che Payns aveva voluto adottare come un vessillo aveva un significato piuttosto diverso da quello che gli si attribuisce ora: povero è una dimensione dello spirito prima ancora che della materia»[7].
Così, seguendo le esposizioni degli storici, si giunge a stabilire che la «povertà» in questione non va assolutamente intesa nel senso che, oggi, tale parola richiama in modo esclusivo alla mente.
Tuttavia, volendo approfondire l’argomento di là da un generico riferimento alla «dimensione dello spirito», sarà opportuno ricorrere ora a fonti più consone al nostro scopo. Come i nostri lettori forse ricorderanno, René Guénon destinò un apposito studio a mettere in piena luce il senso propriamente intellettuale (o, se si preferisce, spirituale) di questo termine[8]. È sufficiente, pertanto, richiamarsi a tale scritto per appurare che la «povertà spirituale», di cui parlano numerose tradizioni, riguarda il caso specifico di colui che ha preso coscienza della propria completa dipendenza, in quanto essere contingente, dal Principio. Sia ben chiaro, però, che qui non si tratta di semplice conoscenza teorica ma di effettiva realizzazione: solo così, in effetti, il potere illusorio dell’intera manifestazione non farà più presa su un tale essere, essendosi egli ormai sbarazzato da ogni residuo attaccamento alle cose. Difatti, come precisa Guénon alludendo – e neanche troppo velatamente – al metodo iniziatico, «nel caso dell’essere umano questo distacco comporta essenzialmente e anzitutto l’indifferenza verso i frutti dell’azione, come in particolare s’insegna nella Bhagavad-Gîtâ, indifferenza mediante la quale l’essere sfugge all’indefinito concatenarsi delle conseguenze dell’azione: tale è “l’azione senza desiderio” (nishkâma Karma), mentre “l’azione con desiderio” (sakâma Karma) è quella compiuta in vista dei suoi frutti»[9]. A questo proposito faremo notare che qualcosa di analogo si ritrova nel metodo templare di realizzazione iniziatica di cui abbiamo parlato in un precedente articolo, allorché esaminavamo certe particolari prescrizioni della Regola del Tempio[10]. Del resto, l’accostamento non ha in sé nulla di arbitrario, se si considera che l’opera tradizionale a cui si rifà R. Guénon, essendo indirizzata più specialmente agli Ksatriya, si applica benissimo, per un certo verso, alla natura e alla funzione dei cavalieri templari; aggiungeremo, inoltre, che l’idea non era affatto sconosciuta in Occidente fin dai tempi antichi, come sta a dimostrare il proverbio « age quod agis», ossia «fa (bene) ciò che fai», che compare già in diverse opere di Plauto.
Avremo modo di ritornare sulla Bhagavad-Gîtâ quando, più avanti, svilupperemo il punto principale del nostro studio. Ora, ai fini di condurre a termine la trattazione di questo punto specifico, dobbiamo riportare ancora un paio di brani tratti sempre dallo stesso scritto di Guénon: «Questa “povertà” (in arabo El-faqru) conduce, secondo l’esoterismo musulmano[11], a El-fanâ, cioè all’estinzione dell’“io”; e per mezzo di questa “estinzione” si raggiunge la “stazione divina” (El-maqâmul-ilâhi), che è il punto centrale in cui tutte le distinzioni inerenti ai punti di vista esteriori sono superate, e tutte le opposizioni scompaiono e si risolvono in perfetto equilibrio»[12]. Cogliamo l’occasione per segnalare, sia pur di sfuggita, che anche nella via massonica si fa riferimento a un «punto al centro del cerchio», una volta raggiunto il quale il Maestro Massone «non può errare»[13] . Più avanti, in un altro passaggio, R. Guénon chiarisce che «questo punto centrale, per mezzo del quale si stabilisce per l’essere umano la comunicazione con gli stati superiori o “celesti”, è anche la “porta stretta” del simbolismo evangelico, e se ne può dedurre cosa siano i “ricchi” che non possono passare attraverso a essa: sono gli esseri attaccati alla molteplicità, i quali di conseguenza sono incapaci di elevarsi dalla conoscenza distintiva alla conoscenza unificata. Questo attaccamento infatti, che è esattamente il contrario del distacco di cui si parlava prima, come la ricchezza è contraria alla povertà, incatena l’essere alla serie indefinita dei cicli di manifestazione »[14] [il corsivo è nostro]. Da ciò consegue che, pur disponendo di tutti i beni del mondo è nondimeno possibile realizzare la propria «povertà» nei confronti del Principio, e che, al contrario, pur avendo abbandonato formalmente tali beni – e addirittura «portato il cilicio»[15] – è possibile sentirsi «ricchi» al Suo cospetto, perché è l’attaccamento alla propria individualità ciò che in definitiva continua a prevalere. Quest’ultima osservazione ci porta a concludere che la «povertà», a cui in un certo senso allude il sigillo templare, si situa evidentemente di là da una qualsiasi prospettiva religiosa, la quale non può superare mai – per definizione – i limiti della condizione individuale; tale «povertà» deve essere, conseguentemente, intesa in un senso puramente iniziatico, poiché, in ultima istanza, essa rimanda all’idea stessa di «Liberazione».
Tornando alle diverse interpretazioni avanzate dagli storici, rileviamo che Alain Demurger, senza peraltro scartare la tesi della «povertà», ne aggiunge un’altra che fa del sigillo templare un «simbolo di unione e devozione»[16]. Ciò, tutto sommato, ci rimanda all’idea di fratellanza proposta anche dal Partner, come abbiamo riferito in precedenza: in effetti, chi abbia avuto modo di leggere le nostre considerazioni sulla fratellanza[17], dovrebbe ricordare che lo scopo ultimo di questa, intesa naturalmente in senso iniziatico, è la «perfetta unione»; la «devozione», invece, si riferisce all’atteggiamento da osservare durante il processo di costruzione di tale fratellanza. Per chiarire meglio quest’ultimo punto, riporteremo un passaggio tratto da un’altra opera di R. Guénon: «Nella natura del Brâhmano predomina sattva, orientandolo verso gli stati sopraindividuali; in quella dello Ksatriya predomina rajas, e lo fa tendere alla realizzazione delle possibilità comprese nello stato umano. Alla predominanza di sattva corrisponde la predominanza dell’intellettualità; alla predominanza di rajas corrisponde la predominanza di ciò che, in difetto di un termine più adatto, possiamo chiamare la sentimentalità; ed ecco un’altra giustificazione di quanto dicevamo in precedenza, che lo Ksatriya, cioè, non è adatto per la conoscenza pura: la via che gli conviene è quella che si potrebbe chiamare “della devozione”, se ci è permesso servirci di un simile termine per rendere, in modo però alquanto imperfetto, la parola sanscrita bhakti, la quale è la via che assume come punto di partenza un elemento di carattere emotivo»[18] . Ciò finisce di mostrare che il Demurger aveva visto bene; e insieme ribadisce il nostro precedente accostamento fra la via orientale degli Ksatriya e la via occidentale dei cavalieri templari.
C’è un’altra interpretazione del sigillo, riportata da P. Partner, che si presta a sviluppi di un certo interesse, opportuni forse per muovere a utili riflessioni il lettore. Si tratta della posizione manifestata dal Maestro delle Cerimonie di Giacomo I d’Inghilterra, sir George Buc, il quale «non credeva che i Templari si fossero resi colpevoli di alcuna “immonda e nefasta infamia”. Egli vide nell’emblema dei due cavalieri su un solo cavallo inciso sul loro sigillo, non tanto il simbolo della povertà quanto quello “dell’amore e della carità, vero geroglifico della gentilezza religiosa e della nobile cortesia militaresca”, che gli ricordava la nobile cavalleria dei “cavalieri antichi” cantata da Ariosto»[19] . Esaminando con attenzione questo brano è possibile notare come, nelle poche espressioni riprodotte dal Partner, vi si trovino ben tre termini appartenenti al «gergo amoroso»: amore, gentilezza e nobiltà. Termini che sembrano messi lì apposta da sir G. Buc per essere recepiti «da alcuni di quelli che sono con noi e non da altri», cioè dagli iniziati che sono in grado di coglierli, i quali da qualche secolo si vedevano costretti ormai a esercitare la loro azione «dal coverto»[20]. Ma l’argomento principale e decisivo, da questo punto di vista, ce lo fornisce la successiva allusione al poema ariostesco. Infatti, se si tiene conto che in tutto l’Orlando Furioso l’unico riferimento ai «cavallieri antiqui» compare all’inizio del versetto XXII del canto primo, e che esso serve a qualificare il comportamento tenuto dai protagonisti di un fatto narrato nel precedente versetto, è giocoforza concludere che, scegliendo tale espressione, il Cerimoniere del Re abbia voluto richiamare l’attenzione sui contenuti del versetto XXI. Ed è proprio lì che l’Ariosto racconta la vicenda di due cavalieri, Rinaldo e il «Saracino», i quali, al fine di seguire la Donna-Sapienza rappresentata in questo caso da madonna Angelica, saltano in groppa, guarda guarda!, a uno stesso cavallo… A proposito di questa segnalazione proveniente da fonte inglese, che costituisce un esempio di come le idee continuassero a circolare fra i vari gruppi di iniziati dei diversi paesi, nonostante i tempi non propizi[21], è bene aggiungere che soltanto pochi decenni prima si era avuta a Londra la presenza di Giordano Bruno, il quale, nel corso del proprio soggiorno, aveva persino dato alle stampe alcune opere. Ebbene, in una di queste, La Cena delle Ceneri, l’autore si presenta come portatore di una conoscenza iniziatica per molto tempo rimasta nascosta: di un lume che, secondo Francis Yates, «va paragonato all’estasi dell’innamorato “furioso” del poema ariostesco il cui “ingegno” si è separato dal corpo durante la pazzia»[22]. In un’altra di tali opere, il cui stesso titolo, De gli eroici furori, contiene un riferimento abbastanza esplicito al menzionato poema, Bruno sviluppa il tema dell’ascesa dell’anima «amorosa» fino al Sommo Bene e al Primo Vero, impiegando – come sottolinea la Yates – tutta «una serie di poesie d’amore, piene di manierismi petrarcheschi e accompagnate da commenti in cui esse vengono di volta in volta interpretate nei loro riferimenti all’amore nella sua accezione filosofica o mistica»[23]. Ora, agli effetti del nostro discorso va rilevato che questo scritto fu dedicato da Bruno a Philip Sidney, personaggio che faceva parte di un influente circolo di «nobili» elisabettiani fra cui i più noti sono John Dee, Edmund Spenser, sir Walter Raleigh, Robert Dudley (conte di Leicester), Edward Dyer, Thomas Hariot e sir Francis Walsingham; a loro volta collegati con la cerchia del duca di Northumberland e quindi con John Donne e con Christopher Marlowe. Quantunque agli inizi del regno di Giacomo I una buona parte di questi personaggi fosse ormai scomparsa, e caduti in disgrazia i rimanenti, niente impedisce che essi avessero passato il testimone a una nuova generazione d’iniziati che si sarebbe occupata di portare avanti lo stesso disegno dei loro predecessori, sia pure con tutti gli adattamenti che le mutate circostanze imponevano. Non c’è niente d’inverosimile in quel che diciamo: in ogni tempo vi sono stati uomini propensi a cercare la conoscenza oltre le apparenze, per la semplice ragione che una tale propensione è insita nella natura umana; e, tra questi, non possono essere mancati neppure coloro che l’abbiano raggiunta effettivamente. Tuttavia la loro esistenza non può che sfuggire agli occhi dei profani, e sarebbe d’altronde illogico pensare diversamente: il punto di vista che li connota in quanto tali, infatti, non considera nemmeno la possibilità di tale conoscenza. Ma, tornando all’aneddoto che ci occupa al presente, non è forse vero che quanto abbiamo messo in evidenza a proposito di sir G. Buc, rappresenta un indizio inaspettato e sorprendente a favore di questa nostra osservazione?[24]
Con il caso appena considerato, che ci ha portati lontano dai tempi in cui fiorirono i Templari ma non dall’argomento di questo studio, chiudiamo il nostro esame di alcune fra le più note interpretazioni del sigillo templare riportate dagli storici, non senza prima avvertire il lettore che ne rimangono altre parimenti meritevoli di essere approfondite[25]. Come avevamo anticipato, la parte conclusiva dell’articolo sarà dedicata a esporre il significato principale racchiuso, secondo noi, in questo simbolo. Ma, prima di sviluppare tale argomento, s’impone ancora una breve osservazione di ordine generale: il fatto di prendere in considerazione l’aspetto più profondo di un simbolo qualunque, non consente affatto di trascurarne la forma; anzi, è vero tutto il contrario, perché è proprio questa stessa forma ciò che costituisce il «supporto» a partire dal quale diventa possibile poi elevarsi, per mezzo delle corrispondenze analogiche, alla conoscenza dei significati cui esso rimanda: non bisogna dimenticare, infatti, che «il simbolismo è una scienza esatta, e non una fantasticheria in cui le fantasie individuali possano aver libero corso»[26] . Cominceremo, pertanto, con il ponderare i principali elementi raffigurati nel sigillo dei Templari. [...]
Franco Peregrino
note
1. Per verificare l’attendibilità di una simile notizia occorrerebbe esaminare la documentazione relativa al suddetto processo; forse potremo ritornare in un prossimo futuro sulla questione, quando (e se) avremo occasione di prendere visione della recente edizione dei documenti curata dall’Archivio Segreto Vaticano.
2. Si veda a questo proposito il nostro articolo «La fine dei Templari e le sue conseguenze», apparso nel n. 5 di questa rivista, in particolare alle pp. 10-11.
3. San Marco, VI, 7: «Allora chiamò i Dodici, e incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi».
4. Cit. in A. Demurger, Vita e morte dell’Ordine dei Templari, Garzanti, 1992, p. 68.
5. P. Partner, I Templari, Einaudi, 1991, p. 6.
6. M. Barber, La storia dei Templari, Piemme, 1997, p. 19.
7. B. Frale, I Templari, Il Mulino, 2004, p. 23.
8. Ci stiamo riferendo a «El-Faqru», articolo apparso originariamente nella rivista «Le Voile d’Isis» (ottobre 1930). Oggi lo si ritrova nella raccolta postuma intitolata Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo (cap. IV).
9. R. Guénon, Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo, in «Rivista di Studi Tradizionali», n. 50, pp. 31-32.
10. Su questo punto si veda il nostro studio «Nuovi cenni sui Templari», in «La Lettera G» n. 4.
11. E interessante sottolineare che il termine «povero», in arabo faqîr, viene addirittura usato abitualmente nel Taçawwuf per designare l’iniziato in generale, indipendentemente dal grado di realizzazione conseguito.
12. R. Guénon, Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo, cit., pp. 33-34.
13. A proposito di questo accostamento, il lettore potrà consultare con profitto l’articolo di G. Testanera «The point within a circle», in «La Lettera G» n. 1.
14. R. Guénon, Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo, cit., p. 35.
15. A chi rimanesse sorpreso da quest’affermazione, faremo osservare che nella Bhagavad-Gîtâ (XVII, 19) viene espressamente indicato che «l’ascesi, quella suggerita da illusioni folli, che induce a torturare se stessi […], procede da tamas».
16. A. Demurger, Vita e morte dell’Ordine dei Templari, cit., p. 68.
17. F. Peregrino, «Sulla fratellanza», in «La Lettera G» n. 1.
18. R. Guénon, Autorità spirituale e Potere temporale, Luni Editrice, Milano 1995, cap. IV, p. 47.
19. P. Partner, I Templari, cit., p. 112.
20. Coloro che si sentissero incuriositi da quest’ultima affermazione potranno trovarne la necessaria giustificazione nei nostri due precedenti scritti sui Templari, comparsi nel n. 4 e nel n. 5 de «La Lettera G».
21. In questa rivista si è già accennato ai rapporti intercorsi fra colui che viene considerato il padre della lingua inglese, Geoffrey Chaucer, e il « Fedele d’Amore» Francesco Petrarca (cfr. G. Testanera, «Sulle tracce degli Antichi Doveri», in «La Lettera G» n. 4, pp. 67-68).
22. F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Edizioni Laterza, 1981, p. 306.
23. Ibid., p. 301.
24. Il fatto, poi, che l’influenza di G. Bruno continuasse a farsi sentire presso i circoli di corte inglese, sino a pochi anni prima della nota iniziazione di Ashmole in Massoneria, come testimonia F. Yates, è qualcosa che dovrebbe far riflettere (cfr. ibid., p. 447).
25. A titolo di esempio ne riproduciamo ancora una, tratta dal libro di G. Bordonove, Il rogo dei Templari, Longanesi & C., 1973, p. 75: «Più fondata sembra essere la tesi secondo la quale questi due cavalieri esprimevano la duplice vocazione del Tempio, religiosa e militare, il doppio carattere del giuramento dei Templari, l’aspetto temporale e spirituale del convento. Ambivalenza che si ritrova nei colori bianco e nero del gonfalone Baussant […]. Il nero per la terra, il bianco per il cielo, a un tempo cavalieri della terra e cavalieri di Dio, che impugnavano le due spade di cui parlava san Bernardo».
26. R. Guénon, «Il Santo Graal», in Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1975, cap. IV, p. 38.
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