• La realtà tra scienza ed alchimia
    Itinerari del pensiero occidental

     



    Anno Accademico
    1998/99


    INDICE GENERALE



    INTRODUZIONE


    ALCHIMIA: L’ARTE DELLA CONOSCENZA





    “…che nel finale stato d’unificazione molte, diverse tradizioni culturali possano convivere,
    e possano fondersi insieme  comportamenti umani diversi in un nuovo tipo d’equilibrio fra pensiero e prassi, fra attività e meditazione”

     W. Heisenberg, Fisica e filosofia, Il Saggiatore, trad.it. di G. Gnoli, Milano 19742, p.238.
                                  W. Heisenberg







    “Alchimia” è un termine che, nel linguaggio contemporaneo, spesso contraddistingue pratiche di ogni sorta unite dal misticismo e dalla confusione dei propri mezzi e scopi. In realtà l’alchimia, come vera e propria disciplina applicata, rappresenta un indispensabile e fertile terreno nel quale rintracciare i segni  “fossili” della fase genetica della conoscenza scientifica.
    L’alchimia riveste un ruolo importante nella cultura occidentale
     Si sceglie di analizzare esclusivamente l’alchimia occidentale in quanto più legata allo sviluppo parallelo e successivo della scienza e, quindi, maggiormente indicativa delle influenze e dei contrasti reciproci.  Per molti versi lo sviluppo dell’alchimia in Oriente sembra essere inscindibile dalle esperienze religiose che ne interpretavano i risultati. Il rapporto con la materia è qui da subito inserito nel più generale panteismo del “grande Tao” e della circolarità degli elementi. D’altra parte lo sviluppo precoce dell’alchimia orientale dimostra la maggiore inclinazione dello spirito orientale a farsi carico di esperienze mistiche e irrazionali, e , di conseguenza la minore importanza di queste come voci di opposizione e di confronto. e di questa sembra essere il naturale contrappeso capace di contrastare in qualche modo lo strapotere di una razionalità forte e vincente che, proprio per il suo dominio, rischia di reprimere aspetti insopprimibili della vita umana. Portare alla luce questa cultura d’opposizione significa innanzitutto considerarne i limiti e circoscriverne i meriti, al fine di evitare soprusi storiografici e inesattezze epistemologiche.
    La ricerca alchemica si presenta, ad una prima lettura, nel suo disordinato accavallarsi di scopi e metodi. Chi leggesse un trattato di alchimia, quali quelli di Ermete Trismegisto o di Zosimo, si vedrebbe travolto dalla congerie di formule, simboli e invocazioni, apparentemente lontane da ciò che lo spirito moderno indica come metodo di ricerca di una qualsiasi scienza. Eppure proprio nella rigorosità del metodo si incentra la pretesa scientificità degli operatori alchemici, capaci di ripetere decine di volte una stessa operazione prima di considerarne l’effetto. Allo stesso modo, la ricerca dell’elisir, della Pietra filosofale e la trasmutazione dei metalli in oro sembrano lontani anni luce da ciò che ogni trattato appone come propria finalità immediata. Ciò stupisce se si guarda all’alchimia senza distaccarsi dal bagaglio di acquisizioni occidentali che la rendono inevitabilmente una disciplina “d’altri tempi”, interessante soltanto per soddisfare la curiosità di un momento.
    Dell’alchimia è invece importante rintracciare i bisogni e le aspirazioni  che ne hanno permesso la nascita e che ne hanno prolungato la vita, in forme diverse, fino ai nostri giorni.
    “L’alchimia è una scienza naturale che rappresenta un tentativo di capire i fenomeni materiali della natura”
     M.L. von Franz, Alchimia, trad.it. di R. Oliva, Boringhieri, Torino 1980, p.17., e come tale è stata studiata fino a tutto il diciannovesimo secolo
     Si vedano, per notare l’impronta misticheggiante e non sistematica delle ricerche meno recenti sull’alchimia, gli studi di M. Berthelot, ( Les origines de l’alchimie, Steinheil, Paris 1885) e F. Rizzatti, (La pietra filosofale, Libreria romana, Roma 1862).; oltre questa visione immediata, e forse semplicistica, dell’alchimia si impone invece una considerazione dei contributi da essa forniti in relazione ad una più chiara e pregnante comprensione dello statuto scientifico delle diverse discipline votate alla conoscenza dei fenomeni. L’importanza epistemologica degli studi alchemici può essere colta ben oltre una sterile presa di posizione della comunità scientifica contro il misticismo e l’ametodicità di un empirismo ancora ingenuo.
    Due sono le tradizioni interpretative fondamentali che hanno contribuito, entrambe nel ventesimo secolo, a tracciare la storia dell’alchimia, l’una accentuando il carattere psicologico-simbolico dell’esperienza alchemica
     Per questa tradizione interpretativa cfr.  soprattutto C.G. Jung, Psicologia e alchimia, trad.it., Roma 1950; Id., Mysterium coniunctionis: ricerche sulla separazione e composizione degli opposti psichici nell’alchimia, trad.it. a cura di M.A. Massimello, Boringhieri, Torino 1989; M. Eliade, Il mito dell’alchimia, Avanzini e Torraca, Roma 1968; Id., Arti del metallo e alchimia, trad.it. di F.Sircana, Boringhieri, Torino 1980; G. Sertoli, Le immagini e la realtà, La Nuova Italia, Firenze 1972; S. Hutin, Bachelard et l’alchimie, in Bachelard: Colloque du Centre Culturel International de Cerisy-la-Salle, Union générale d’éditions, Paris 1974, pp.113-133; G. Di Nardo, Lingua sacra e simbolismo alchemico, Il basilisco, Genova 1983; C. Widmann, Alchimia della psiche, PD, Abano terme 1987; G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, trad.it., Cortina, Milano 1995;  P. Gambazzi, L’alchimia in Bachelard, in “Immediati dintorni”, 1989, pp. 16-19; C. Vinti, Il soggetto qualunque, Edizioni scientifiche italiane, Perugia 1997, pp.861-886. Per un’ulteriore bibliografia sugli autori più rappresentativi di questa corrente si rimanda all’indice bibliografico oltre che alle note di testo., l’altra mettendo in evidenza il valore epistemologico e storico del progetto alchimistico
     Cfr. p.es. S. Andreani, Alchimia: appunti per una semiologia del sacro, ERI, Torino 1976; E. Minguzzi, Alchimia: il cammino della potenza, Armenia, Milano 1976; M. Dal Pra, voce Alchimia in Enciclopedia Einaudi, I, 1977; T. Burckhardt, Alchimia: significato e visione del mondo, a cura di F. Bruno, Guanda, Milano 1981; D.W. Theobald, Gaston Bachelard et la philosophie de la chimie, “Archives de Philosophie”, XLV (1982), 1, pp. 63-83; M.O. Aivanhov, Il lavoro alchemico, ovvero La ricerca della perfezione, trad.it. Cedex, Prosveta 1990; K. Doberer, L’oro alchemico: storia di una ricerca millenaria, ECIG, Genova 1994..
    La prima scuola di pensiero, che fa capo a Jung e Bachelard oltre che, in maniera meno stretta, ad Eliade, intende l’alchimia come espressione dell’inconscio personale e collettivo; “secondo tale interpretazione l’alchimista, nella sua aspirazione alla fabbricazione dell’oro, non farebbe che dare forma alle forze istintive dell’inconscio che si annida nel seno stesso della collettività”
     M. Dal Pra, voce Alchimia in Enciclopedia Einaudi, I, 1977, p.279..
    Tale interpretazione rende conto certamente e in modo esaustivo del carattere soggettivistico della ricerca alchemica, dell’irriducibilità di essa ad un movimento culturale organizzato e finalizzato. L’alchimista in effetti mantiene sempre un certo grado di passività rispetto all’oggetto trattato; egli deve in ogni caso attenersi al metodo rivelato attraverso la tradizione tramandatagli e non può “tecnicamente” imporre alla natura una forma che essa già possiede in modo perfetto. L’operatore deve anzi compiere un regressus verso la perfezione naturale e materiale. Non a caso il procedimento cardine di ogni operazione alchimistica è la distillazione, quale strumento in grado di spogliare la Materia Prima delle sue scorie, permettendole di manifestarsi oltre i metalli vili.
    L’alchimia è senza dubbio in grado di rivelare il bagaglio psichico dell’operatore, e, tramite esso, di ogni essere umano. Il fuoco, lo zolfo, il mercurio mantengono sempre, al di là del loro significato fisico, un “valore inconscio”
     G. Bachelard, La ragione scientifica, a cura di S. Sertoli, Bertani, Verona 1974, p.224. che può essere fatto risalire all’inconscio dell’alchimista, egli “proietta sulle sostanze a lungo lavorate il proprio inconscio, che viene a ricoprire le conoscenze sensibili, (…) l’alchimista proietta la propria profondità”
     Id., La terre et les rêveries du répos, Corti, Paris 1948; 198814; trad. it., Red, Como 1994, pp.51-52.. Ciò non toglie che una considerazione esclusiva e assolutizzante della componente simbolica e inconscia rischi di sottovalutare il contributo effettivo dell’alchimia.
    A questo contributo si è richiamata la critica antropologica del secondo Novecento, che, prendendo distanza dalla prospettiva psicanalitica, ha cercato di rintracciare i fondamenti teorici dell’alchimia.
     Ciò che risulta  immediatamente evidente, considerando i risultati pratici degli alchimisti, è la straordinaria quantità di esperimenti condotti, seppur senza alcuna rigorosità “moderna”, che ha potuto influenzare la nascita della chimica scientifica nel diciassettesimo e diciottesimo secolo. Molti metalli non sarebbero stati facilmente catalogati senza i carteggi alchemici, né numerose superstizioni sarebbero state vinte senza la “prova” dell’alchimia. Ma la componente più importante lasciata in eredità dall’alchimia è stata proprio quella che ha riscosso, a breve termine, i minori consensi: la concezione organicistica della natura e il carattere totalizzante della ricerca umana.
    La scienza moderna è nata in stretta relazione con la concezione cartesiana della realtà e da questa ha tratto, oltre agli evidenti beneficî, un conseguente oblio del necessario rapporto di ciò che è res exstensa con ciò che non lo è.
    L’alchimia ha invece voluto ricercare i legami tra macrocosmo e microcosmo, tra mondo e uomo, tra sostanza divina e sostanza materiale. Proprio in questo “volere” consiste quella positività che l’interpretazione di matrice junghiana non ha saputo vedere. L’importanza culturale dell’alchimia risiede infatti nell’esser stata una presa di posizione attiva contro il dualismo metafisico e non solo l’espressione di impulsi inconsci elevati a livello sociale.
    “L’universo viene colto dall’alchimia tanto nella sua radicale unità e nella sua feconda base materiale, quanto nelle interne articolazioni delle sue parti”
     M. Dal Pra, op.cit., p.281., che poi queste parti assumano nell’esposizione degli alchimisti dei caratteri evidentemente influenzati dalle pulsioni inconsce e irrazionali degli uomini e della società risulta facilmente esperibile ed accettabile.
    Ciò che ci si propone è dunque di cercare una possibile terza via che possa rendere conto sia delle acquisizioni dell’una che di quelle dell’altra corrente esegetica, fornendo un quadro il più possibile esatto dei rapporti dell’alchimia con la nascita della scienza moderna, e della relazione di questa con quelle idee che dell’alchimia possono essere considerate valide ancora oggi.
    Nella prima parte si considera, in maniera diacronica, il rapporto dell’alchimia con la conoscenza pseudo-scientifica precedente l’introduzione del metodo sperimentale. In particolare si cerca di analizzare la concezione classica di materialità, di ricerca e di scienza, in relazione a quella sintesi alchemica di metodo e rivelazione che sembra riassumere i caratteri  olistici della scienza antica. D’altra parte non si può trascurare il fatto che la scienza, nelle sue origini, non abbia potuto in alcun caso fare a meno di intrecciare i propri metodi con quelli delle religioni  e delle arti, distinguendosi dalla scienza moderna proprio per la sua dimensione non tecnica, ma mitico-estetica.
    Sin dalle prime speculazioni naturalistiche dei fisici ionici la natura era physis, natura fisica abbracciata tutta intera dal divino
     cfr. Aristotele, Metafisica., Λ 8, 1074  b 1, in Opere VI, cit., p.156., e solo a partire da fenomeni non puramente meccanici poteva essere considerata. Allo stesso modo gli alchimisti non possono prescindere da una materialità legata a tal punto con il divino da potersi considerare la via per l’elevazione spirituale.
    Solo con l’avvento del metodo sperimentale e della scienza moderna si può dire conclusa la fase ascendente di una visione del mondo globalistica e totalizzante. Ciò non toglie che prima di giungere compiutamente nella nuova era epistemologica si siano ripetuti e rincorsi tentativi spesso ingenui o azzardati di spiegare razionalmente il mondo dei fenomeni senza rinunciare al postulato di fondo della scienza antica: la pretesa intuitività della struttura naturale.
    La scienza moderna ha invece edificato una razionalità fondata sui numeri e sulle formule più che sulle sostanze o sui corpi. Proprio nel passaggio dall’una all’altra Weltanschauung  si è cercato di scorgere il segno lasciato (o imposto?) dall’alchimia. Nel terzo capitolo si presenta a questo proposito un breve excursus sul periodo di transizione cui si è accennato; da Paracelo a Boyle, da Stahl a Lavoisier si susseguono incessanti i primi passi di un nuovo modo di concepire la ricerca scientifica senza che il retaggio di esperienze lasciato dall’alchimia si facesse mettere pacificamente da parte.
    Nella seconda parte si analizza invece un’epoca, quella contemporanea,  nella quale l’alchimia può essere presente soltanto come voce di confronto rispetto alle categorie vincenti della nuova razionalità. Ciò non esclude una rinnovata rilevanza di un modello teoretico forse troppo disinvoltamente accantonato dalla cultura ufficiale.
    La scienza è oggi richiamata dai suoi stessi risultati a riconsiderare la possibilità di un universo fondato su qualcosa di diverso da ciò che aveva creduto la scienza newtoniana. Materia, elemento, principio non hanno più lo stesso significato che potevano avere ai tempi della scienza classica, né possono rispondere con le loro definizioni alle domande che gli si rivolgono. L’alchimia potrebbe dunque fornire il materiale concettuale per comprendere meglio delle realtà che sembrano facilmente ricollegabili ad una visione del mondo maggiormente organicistica e priva di distinzioni nette tra i vari settori del sapere.
    La fisica relativistica e la meccanica quantistica hanno messo in discussione la totale separazione di realtà sensibile e realtà extrasensibile, di materia e spirito; allo stesso modo la profonda tecnicizzazione della scienza ha finito per rivoltare su se stessa i tanti interrogativi che aveva contribuito a suscitare. Scienza e tecnica oggi hanno cessato di imporre un dominio senza opposizioni e sono travolte da un dibattito filosofico senza precedenti sul significato più originario dei loro scopi e dei loro mezzi.
    Ciò che ci si sforza di chiarire è in che termini l’alchimia possa intervenire per offrire il proprio bagaglio di idee all’uomo tecnologico e fino a che punto non sia inopportuno sedere con gli alchimisti al tavolo della conoscenza con un fardello fatto di simboli e silenzi, più che di soluzioni già date.
    E’ opportuno infine precisare i limiti di una ricerca la cui organicità si scontra inevitabilmente con la necessità di rendere conto di esperienze lontane nel tempo e forse difficilmente avvicinabili, come alchimia e fisica ionica, meccanica quantistica e chimica rinascimentale.  A scusante di ciò si accolga la pretesa di fornire un quadro il più possibile completo delle potenzialità di una disciplina troppo spesso accostata esclusivamente alla magia o al vuoto esoterismo oggi rifiorente.  
    Si ringraziano, in conclusione, per la preziosa collaborazione, il prof. U. Bartocci del Dipartimento di Matematica, il prof. P. Marino,  del  Dipartimento  di  Chimica  dell’Università  di Perugia e il        dott.  M. Santamicone.



















    PARTE PRIMA


    L’alchimia nella storia della scienza








    § 1.1  METODO E RIVELAZIONE


    “Se si leggono i documenti alchimistici come si leggerebbe un sogno se ne coglierà il significato”
     M.L. von Franz, Alchimia, Boringhieri, Torino 1984, p.66.
           M.L. von Franz
    (op.cit., p.66)
                                  


    L'alchimia emerge tra le maglie del tempo come una chimera dai contorni incerti, una fata Morgana dal profilo reso diafano da fumi e vapori. Disciplina misteriosa, la filosofia ermetica nasce in seno alle civiltà più antiche e la trasformazione dei metalli ne è diventata uno degli atti emblematici.
    Ma domandiamoci: può oggi una storia dell'alchimia interessare più di quanto interessino le “curiosità” storiche delle epoche più remote? E' facile che qualcuno ne dubiti, soprattutto se non si è rimossa dai propri schemi mentali l'idea volgare che ci si è fatti dell'alchimia. L'alchimia non è solo l'arte del trasformare i metalli vili in oro: è qualcosa di più e di meglio di quello che si crede.
    Generalmente si conviene nel fissare la genesi dell'alchimia
     Per una storia dell’alchimia cfr. E.J. Holymard, Storia dell’alchimia, trad.it. a cura di C.G. Ciappei, Sansoni, Firenze 1972; Alchimia: la tradizione in Occidente secondo le fonti manoscritte e a stampa, a cura di M. Gabriele, La Biennale di Venezia [etc.], Venezia 1986; E. Zolla, Le meraviglie della natura: introduzione all’alchimia, Marsilio, Venezia 1990; C. Gilchrist, L’alchimia: storia della pratica alchemica dalle origini al XX° secolo, trad.it. a cura di S.Doffo, Convivio, Firenze 1990; F. Jolivet-Castellot, Storia dell’alchimia, trad.it. di P.Bornia, Bastogi, Foggia 1992; C. Glichrist, L’alchimia, trad.it. a cura di V. Cucchi, Xenia, Milano 1993; K.K. Doberer, L’oro alchemico: storia di una ricerca millenaria, ECIG, Genova 1994. Per un più dettagliato  panorama sui concetti e i processi alchemici cfr. F. Mariani, Introduzione alla pratica alchemica: il risveglio iniziatico attraverso l’alchimia, Bastogi, Foggia 1982;  M.L. Franz, Alchimia, Boringhieri, Torino 1984; Chymica vannus: dell’alchimia o la scienza sognata, a cura di D.Domini, Longo, Ravenna 1985; M. Pereira, L’oro dei filosofi, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, Spoleto 1992. A. Aromatico, Alchimia: l’oro della conoscenza, Electa, Torino 1996., in Occidente, nel 1144, con la traduzione di Morienus per opera di Robert De Dekhetton. Pur tuttavia è rilevabile un corpus arabo di dottrine ben costituite e compiute, e ancora prima è possibile individuare fonti greche. Inoltre, la letteratura di ricette tecniche nell'alto medioevo è intrisa di germi alchemici. Il termine inferiore di datazione è però di difficile collocazione. Lo si potrebbe situare intorno al 1546, con la stampa del primo trattato moderno di studio dei metalli: il De ortu et causis subterraneorum di Agricola; si potrebbe scegliere anche il 1789 con il Trattato elementare di chimica di Lavoisier, poiché esiste un'abbondante letteratura che prolungò l'alchimia medievale attraverso i suoi scopi e i suoi metodi.
    La vita dell'alchimia continua fino al ventesimo secolo, con personaggi e opere spesso misteriose; si pensi a Fulcanelli e ad Armand Barbault, i quali seppero perpetuare l'universo operativo e concettuale degli autori medievali.
    Nonostante le differenti interpretazioni che sono state fornite di questa arte sacra (Grande Opera), l'idea base che ha guidato da sempre gli alchimisti è che alle spalle di tutte le manifestazioni naturali, di tutto l'esistente, ci fosse una causa prima: lo spirito universale. Esso fu per gli alchimisti quel principio che, diffuso nelle opere della natura come per continua infusione, muove ogni universale e ogni particolare secondo il suo genere per mezzo di un atto segreto e perenne.
    La Grande Opera era la sintesi di quell'atteggiamento titanico che consentiva ad un semplice uomo di farsi demiurgo del proprio microcosmo. Prendere una materia di per sé caotica, purificarla e rianimarla affinché fosse poi in grado di permearsi di spirito, separare, mondare ed esaltare le diverse nature di cui è formata e poi ricongiungerle in un'unità armonica per la spiritualizzazione definitiva, che la avrebbe resa Pietra filosofale.
    Va specificato subito che per “pietra filosofale” non si deve pensare ad una pietra vera e propria; più comunemente si designa con questo nome una polvere o una cera che poteva essere ridotta allo stato liquido (la qual cosa spiega meglio la denominazione elisir o tintura). Le varie parti del processo con cui si realizzava la pietra filosofale possono essere discusse solo genericamente, dal momento che varie sono le descrizioni di questo procedimento e molteplici sono gli elementi decisivi per la riuscita del processo stesso (condizione spirituale dell'alchimista, configurazione astrologica, ecc.).
     Si tratta, dunque, di un metodo procedurale al quale si accompagnano caratteristiche trascendenti e operative, che fanno si che l'alchimia possa essere definita una “metafisica sperimentale”.
    Il procedimento consiste nel sottoporre la materia prima
     La materia prima degli alchimisti, al di là di considerazioni tecniche, va intesa come generica sostanza vile, la quale, grazie alla vocazione del sapiente, può essere individuata e iniziata al processo di trasformazione. a trattamento chimico, specialmente riscaldamento e distillazione, finché, all'ultimo stadio – magari solo dopo molti anni – raggiunge la perfezione. La forma esteriore della materia vile dev'essere distrutta con il fuoco o con qualche apposito preparato di natura acida; successivamente, la sostanza viene trattata nell'alambicco per mezzo del calore, il che conduce alla “morte” della sostanza: momento conosciuto con il nome di nigredo o “annerimento”. L'“anima” della materia, tuttavia aleggia ancora nell'alambicco, ermeticamente sigillato e si può indurla a condensarsi allo stato liquido per farla ritornare nel corpo. Questa è la “resurrezione”, che può essere anticipata da un'esplosione di colori iridiscenti, nota con il nome di “coda di pavone”; qui l'elisir giunge allo stadio supremo di perfezione, e ciò che si ottiene viene chiamato “pietra bianca”, la quale pare abbia la capacità di trasformare il metallo in argento. Per ottenere la tintura atta a produrre l'oro è necessario sottoporre l'elisir ad un ulteriore trattamento, al termine del quale diviene rosso.
    Le descrizioni che l'alchimia fa dei suoi processi ricorrono ad immagini simboliche assai vivide: termini come “nascita”, “morte” e “resurrezione” non devono essere interpretati semplicemente come associazioni di idee, ma come indicazioni di stadi reali che, sia la materia, sia l'anima dell'alchimista, devono attraversare. L'utilizzo di animali, di uccelli e figure umane archetipiche, che lottano, si sposano e si congiungono, è espressione delle energie dinamiche presenti nel processo.
    Il processo ora descritto – tramandato oralmente e segretamente tra maestro e adepto – ha trovato applicazione anche in campo psicologico. Il bisogno crescente di indagare gli istinti umani e i processi mentali ha reso evidente che il processo alchemico, con il quale si voleva compenetrare la materia per purificarla, è anche, e soprattutto, per gli alchimisti, un processo di purificazione di se stessi e, appropriandoci della terminologia junghiana, di “ individuazione del sé.
    Jung è il più importante interprete dell'alchimia in tal senso; ma fu preceduto dal generale maggiore E. A. Hitchcock , che rifiutava l'idea che la trasmutazione dei metalli fosse il solo ed unico scopo dell'alchimia, sostenendo invece che l'uomo era il soggetto dell'alchimia e che il suo oggetto il perfezionamento dell'uomo stesso. Jung segna il risveglio dell'alchimia nel ventesimo secolo stabilendo il legame vitale tra psicologia e alchimia attraverso l'iconografia di quest'arte come disciplina interprete del viaggio dell'animo umano. Scoprendo una profonda corrispondenza tra i simboli degli alchimisti e le immagini che ricorrono spontaneamente nei sogni, Jung mostra come il processo alchemico riveli apertamente l'inconscio di chi attua il processo e di come questo processo abbia un fine ben definito: il perfezionamento del sé. L'alchimista riversa tutto se stesso nella materia, diventa un tutt'uno con essa e le proiezioni inconsce si riversano sul procedimento metodologico in atto; così, quando l'alchimista trova la pietra filosofale o l'elisir vitale, trova il proprio sé, il proprio centro vitale in cui gli opposti si riuniscono. A tal proposito Jung utilizza il termine “enantiodromia” – termine eracliteo- per indicare questa coincidentia oppositorum avente come significato “corsa in senso opposto”, nel senso che ogni cosa  prima o poi tende al suo contrario.
    L'alchimista è dunque anche psicologo in quanto egli non ha di certo un paziente da psicanalizzare, ma è esso stesso paziente che, indagandosi, psicanalizzandosi, si ritrova e si individua nella materia stessa. Nel processo di individuazione descritto da Jung, si mostra come l'alchimista, dando inizio al processo chimico di trasformazione della materia, parallelamente dia vita ad una trasformazione di se stesso trasportandosi in una dimensione sospesa tra il reale e il metafisico; adoperandosi per una radicale divisione del proprio io nella quale l'io individuale si incontra e si scontra con l'io disincarnato, puro, scevro da ogni condizionamento di carattere empirico. Gli opposti che per natura divergono si adoperano per una ricongiunzione in atto, per un connubio intimo tra l'essere e l'essenza dell'alchimista con l'essere e l'essenza della materia.
    Questa unione di essere ed essenza di spirito e materia si ritrova anche in tutta la produzione epistemologica e poetica di Gaston Bachelard, il quale tiene come punto fisso questo legame tra immaginazione e ragione. Anche Bachelard, come Jung e Freud, parlerà dello sdoppiamento di personalità; con la differenza che mentre per Bachelard, così come per Jung, tale sdoppiamento (che si attua in ogni procedimento alchemico) è necessario, fondamentale alla realizzazione del progresso scientifico-spirituale, per Freud tutto questo è visto come anormalità psichica. Contravvenendo dunque alla teoria freudiana, Bachelard insisterà sul fatto che lo sdoppiamento di personalità – che, come conseguenza necessaria, porta ad una divisione del soggetto della scienza - consente al savant di psicanalizzarsi e di rimuovere l'ostacolo epistemologico
     Bachelard sostiene che l’ostacolo epistemologico è da concepire come una “posibile causa di stagnazione e persino di regressione” (G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, Cortina, Milano 1995, p.93) la quale si oppone al bisogno di compiutezza della scienza, incrostandosi “sulla conoscenza non problematizzata” (ibid.) con un carico di opinioni, senso comune e pregiudizi (intesi in senso lato e comprendenti anche e soprattutto la deduzione naturale e le componenti istintive di relazionalità con un qualsiasi oggetto di studio). di impedimento al progresso scientifico, liberandolo e purificandolo interiormente. Lo scarto tra conoscenza conscia e consapevolezza inconscia risulta essere la molla che avvia il processo di ideazione, conducendo dunque all'esecuzione di un procedimento alchemico che prefigura, in nuce, ogni tentativo di cognizione scientifica. In effetti, alla radice dell'idea di comprensione e di compenetrazione della realtà vi è proprio la consapevolezza di una non trascendibile impurità del soggetto conoscente; l'alchimista non pretende in alcun modo di comprendere i segreti della materia grazie esclusivamente ad un'abilità tecnica: nessun metodo sarebbe capace di portare alla verità senza una rivelazione che ne sia garante. L'ostacolo epistemologico viene così ad identificarsi con quell'insieme di conoscenze prescientifiche, che, se fatte proprie e non negate, possono elevarsi dal rango di pregiudizio a quello di precomprensione, cessando di essere ostacolo, e divenendo anzi punto di partenza imprescindibile.
     La storia della filosofia, dal Rinascimento fino ad oggi, ha dovuto tener conto della parallela storia del metodo di fare filosofia, essendo il primo obiettivo quello di equiparare in esattezza e rigorosità il metodo scientifico che era venuto elaborandosi. Ciò non toglie che già da Platone il problema più urgente per evitare conoscenze fittizie, era stato la ricerca di procedure volte ad evitare l'errore nell'analisi dei concetti; specialmente quella forma di errore che consiste nell'accettazione tacita di pregiudizi. Un metodo consta solitamente di prescrizioni negative, o “igieniche”, intese a evitare gli errori, e di prescrizioni positive, o regole euristiche, finalizzate alla costruzione vera e propria della conoscenza. Appartengono al primo tipo di prescrizioni le regole di Bacone per l'eliminazione degli idola, e la prima e la quarta regola del metodo di Cartesio. Il pregiudizio può però essere il punto di partenza della conoscenza se considerato “anticipazione”, nel senso opposto dato al termine da Bacone
     F. Bacone, Novum Organuum, I, 26, a cura di E. De Mas, La Scuola, Brescia 19583, p.85.; è stato Popper a sostenere la validità della anticipatio, se controllata “accuratamente e rigorosamente da controlli sistematici”
     K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, tr.it. di M.Trinchero, Torino 1970, p.309.. Un pregiudizio può essere usato non dogmaticamente al fine di accrescere la conoscenza proprio in virtù del rovesciamento e dell'invalidamento delle congetture conseguenti ad esso, “il (…) metodo di ricerca non è quello che consiste nel difenderle, per provare quanta ragione avessimo. Al contrario, tentiamo di rovesciarle (…) allo scopo di avanzare, in loro luogo, nuove anticipazioni ingiustificate e ingiustificabili”
     Ibid.. Bacone, come è noto, contrappone alla anticipatio, la interpretatio naturae, cioè l'interpretazione esperta del vero essere della natura
     Cfr. F. Bacone, op.cit., I, pp. 26 e ss., che può permettere di dominarla obbedendole. Le critiche classiche ad un metodo siffatto si rivolgono soprattutto all'aver fatto del metodo una semplice disciplina (nel senso latino)
     Cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, tr.it. di G. Vattimo, Fabbri, Milano 1972, pp. 404 e ss., dato che esso si risolve in una indagine dei pregiudizi. Ma proprio in tale indagine si può notare lo scarto tra la concezione di una conoscenza votata al dominio dell'essere, e quella di un'idea che vede la scienza come interpretazione dell'essere. E' quest'ultima l'idea che guidava gli alchimisti. Il pregiudizio alchemico, si configura come vicino e insieme irriducibile all'ipotesi scientifica; l'operatore medievale partiva indubbiamente da una rivelazione presunta per seguire poi una metodologia informata da quella stessa rivelazione. Nulla di più lontano da un metodo che voglia dirsi ipotetico-deduttivo, in quanto è l'essenza stessa del dogma a caratterizzare l'operari dell'alchimista; eppure una concezione del pregiudizio di tal genere è più vicina a quella di tanta parte dell'epistemologia contemporanea, di quanto non lo fosse l'idea baconiana. Per l'alchimista il pregiudizio è sempre precomprensione
     In questo l’alchimia sembra tornare al significato latino del termine prejudicium, che oltre ad una valenza negativa, ne rende anche una positiva. Come nota Gadamer “ciò è molto lontano dall’uso comune che il termine ha oggi. La parola tedesca Vorurteil, pregiudizio – come il francese préjugé, ma in modo ancor più accentuato – sembra esser stata ridotta, dall’illuminismo e dalla sua critica alla ragione, a significare esclusivamente giudizio infondato” (H.G. Gadamer, op.cit., p.318)., che, proprio in virtù del suo essere precedente alla conferma empirica, assume un valore essenziale per la conoscenza.
    L'alchimia si presenta dunque come tendenza a rigettare ogni pretesa di razionalismo e di empirismo puri, ogni concezione del mondo che non presenti una compenetrazione di rivelazione e metodo: in breve, un'idea di conoscenza distante dalla semplice epistème oltre che dalla semplice esperienza sperimentale. Si può facilmente notare una critica radicale ante litteram all'illuminismo e ai relativi dettati contro il principio di autorità e per la libertà del sapere. Il logos per gli illuministi si contrappone al mythos come la ragione si contrappone alla superstizione, scompare così l'idea di un sapere onnicomprensivo che possa rendere conto anche dell'indimostrabile. Il fatto che la fine dell'alchimia come scienza e l'avvento del metodo sperimentale vengano a collocarsi in periodi cronologicamente vicini, suggerisce indubitabilmente che la precipuità del metodo alchemico consiste nell'opposizione alla dialettica ipotesi – sperimentazione. A ben vedere però ciò non è del tutto vero: gli alchimisti partono anch'essi da un'ipotesi, anche se si tratta di un'ipotesi di cui si deve verificare non la verità o la falsità, ma la giusta esecuzione e messa in pratica. E' l'alchimista che, partendo dall'assunzione di senso concessagli dalla rivelazione sapienzale, cerca di ri-produrre un procedimento che in teoria è già esistente, ma che ha bisogno di un'applicazione totale affine alla unio mystica dei religiosi medievali. Se la verità scientifica è corrispondenza di esperienza post factum e ipotesi, la verità alchemica è corrispondenza di esperienza metodologica e ipotesi data come già-da-sempre vera, quindi rivelazione; e la rivelazione alchemica è rivelazione segreta perché non tutti possono essere in grado di assumersi la responsabilità di esplicare ciò che la divinità ha rivelato implicitamente.
    In Occidente l'alchimia fu detta “arte ermetica”, perché, secondo una tradizione testuale di presunta origine ellenistica, il primo maestro di tale dottrina sarebbe stato Ermete Trismegisto (figura mitologica di sapiente, in cui si fondevano il dio egizio Thot e il greco Ermes). In questo contesto gnostico e neoplatonico l'alchimia è un dono divino, essendo la chiave di volta per ripercorrere all'inverso la via che, per emanazioni successive, conduce allo svilimento ontologico dell'Essere. In effetti, una componente gnostica decisiva è rintracciabile, non solo nelle manifestazioni più propriamente storico-diacroniche della scienza alchemica, ma anche, e soprattutto, nell'idea di fondo che ne ha contraddistinto la genesi, in primis, come fenomeno culturale e tendenza di pensiero. Secondo alcune tradizioni, collegate all'esoterismo ebraico-cristiano e islamico, l'alchimia sarebbe nata dalla rivelazione dei segreti del cosmo fatta da alcuni angeli a donne con cui essi si unirono, rivelazione descritta dal Libro di Enoc, un apocrifo biblico databile intorno al I secolo a.C.:
    “E si unirono con loro ed insegnarono ad esse
    incantesimi e magie
    e mostraron loro il taglio delle piante e radici.
    (…) E Azazel insegnò agli uomini a far spade,
    coltello, corazza da petto”
     Il libro dei Vigilanti II, 7-8, in Apocrifi dell’Antico Testamento, Utet, Torino 1981, p.475.
    Da notare come una tradizione di tal genere possa agevolmente comporre un quadro eterogeneo che, simbolicamente, segni la convergenza di tre connotati che saranno paradigmatici per la successiva storia del pensiero occidentale, ma che, paradossalmente, sono, se non in opposizione, almeno in contrasto tra loro: l'idea di alchimia e, in generale, di trasformazione della natura; l'esoterismo derivante da una sapienza rivelata; lo svilimento della materia in quanto appartenente ad un mondo dominato dal male. Indubbiamente gnosticismo e alchimia, uniti nella concezione ermetica della conoscenza, sembrano irrimediabilmente distanti quanto alla concezione della materia; l'idea stessa di una ricomposizione dell'unità del chosmos ne presuppone però una radicale scissione, l'alchimia può dunque essere intesa come esito e necessaria conseguenza della visione gnostica delle cose. D'altra parte un'alchimia considerata esclusivamente alla luce della tradizione naturalistica non renderebbe conto dell'importanza dell'esoterismo, che serve a informare lo stesso procedimento tecnico in vista di quelle “nozze mistiche” che legano le due dimensioni, materiale e spirituale, dell'essere.
    L'esoterismo alchemico si fonda essenzialmente sulla tutela di un segreto, che può essere la rivelazione degli angeli caduti, come anche il segreto del fuoco donato da Prometeo agli uomini; in ogni caso “segreto” significa verità che è tale proprio perché è oggettivamente estranea al linguaggio della comunicazione, al linguaggio profano; donde, da parte dell'alchimista, lo sforzo di scoprire dentro di sé e nei propri rapporti con la natura gli elementi di un linguaggio sacro che non comunica nulla, ma dice le cose, pronuncia l'essenza delle cose, il vero nome dell'io e delle componenti della natura. Tale sforzo, mirante all'immissione del proprio io segreto nella circolazione universale dei segreti della natura, non solo implica un indispensabile momento operativo (le pratiche di laboratorio, in cui si è riconosciuta la preistoria della chimica e della fisica sperimentali), ma tende ad eliminare la distinzione fra teoresi e operazione pratica; nell'alchimia vi è una tendenza costante a considerare momento gnoseologico per eccellenza l'istante in cui l'operatore manipola materialmente minerali, metalli, liquidi, gas. Le varie tecniche di laboratorio, eseguite d'altronde secondo uno schema rituale, sono – paradossalmente – operazioni linguistiche: si chiama per nome (il vero nome segreto) un metallo, per il fatto stesso di manipolarlo; e si chiama per nome (il vero nome segreto) il proprio io, per il fatto stesso di compiere l'operazione rituale dell'uso “tecnico” della materia.
    Il chosmos è individuabile nel chaos perché tenuto insieme da un filo linguistico che unisce ogni parte della realtà: la materia è trasformata quando dal sostrato esistente si giunge ad un “qualcosa in più” che, nel farsi del procedimento di laboratorio, si svolge attraverso degli atti sostanzialmente linguistici. L'alchimista non distingue mai tra la cosa e il nome della cosa, in questo precedendo le analisi epistemologiche contemporanee: “Il linguaggio ha un ruolo molto importante nella scienza. Una tipica operazione scientifica deve consistere dei seguenti stadi: osservazione, analisi delle osservazioni, determinazione delle ipotesi, calcolo, previsione, verifica delle previsioni attraverso una osservazione successiva. Tutti tranne il primo e l'ultimo sono fatti linguistici”
     H. Bloomfield, Scienza del linguaggio e linguaggio della scienza, Padova 1970, p.13.. Il concetto stesso di rivelazione non è in nessun caso separabile da quello di metodo; la rivelazione si produce proprio nell'esplicarsi in una metodologia. Il senso del rivelare è legato a quello di svelamento, a-lètheia, che può prodursi esclusivamente con l'effettiva pratica sperimentale, la quale toglie dal nascondimento ciò che la materia trasformata non è ancora, ma che progressivamente “diventa”.
    La ricerca del principio primo delle cose, per mezzo della dialettica tra il “dire l'essenza” e l'indicibilità costitutiva della realtà, produce un apparato simbolico, che, oltre a fornire il materiale per l'analisi psicologica e psicanalitica, consente di individuare le forme prescientifiche di conoscenza.
    L'alchimista è sempre a conoscenza del carattere subalterno del proprio compito: è sempre la totalità dell'essere che detta le leggi della conoscenza, cui l'uomo può corrispondere con un pratica adeguata. La verità è sempre svelata e mai scoperta dal punto di vista dell'alchimista, ed è proprio il carattere di rivelazione che consente all'uomo di seguire un percorso già scritto che, dal sostrato precognitivo, passa per il metodo di autopurificazione, per arrivare alla comprensione sacra delle leggi che regolano la natura. In ciò risiede la differenza e la distanza che l’alchimia stabilisce dalla scienza moderna, l’una attende la verità, l’altra la cerca tecnicamente.  
    L'alchimista procede ad un vero e proprio circolo ermeneutico adottato come archetipo del metodo scientifico: non si tratta di mettersi al sicuro contro la voce dell'essere, ma al contrario, di tener lontano tutto ciò che può impedire di ascoltarla in modo adeguato: “sono i pregiudizi di cui non siamo consapevoli quelli che ci rendono sordi alla voce del testo”
     H.G. Gadamer, op.cit., p.317. e della natura
     Si può dire che l’idea heideggeriana di una autorivelazione dell’essere, e del conseguente compito del filosofo individuato nel lasciare, da buon pastore, che l’essere sia, si addica all’esperienza alchemica più di quanto riesca a spiegare i concetti della scienza moderna, che ha nella tecnicità la sua possibilità di realizzare la pienezza dell’essere.   .







    § 1.2 “SULLA NATURA”: LA NASCITA DELLA SCIENZA


    Aristotele chiama “fisici” i primi pensatori greci, laddove per fisica si intende quella scienza che studia la realtà diveniente, oltre la quale si deve ricorrere alla metafisica per cogliere le sostanze immutabili. E' chiaro come una tale definizione vada giustificata nell'ambito del sistema aristotelico, tuttavia è emblematico il fatto che la prima parola della scienza nel mondo abbia dovuto subire una caratterizzazione precisa già dal suo più prossimo interprete. L’evoluzione del senso della physis è lo stesso che, fatto proprio duemila anni dopo, porterà la scienza moderna a distaccarsi dal compito di ricerca onnicomprensiva per seguire la via di un sapere strumentale, destinato per propria essenza al tecnicismo.
    Quando gli ionici affermavano che la physis delle cose era l'acqua, o l'aria, o il fuoco a che cosa intendevano riferirsi con il soggetto di queste proposizioni?  Quale era il contenuto di quella cosa ultima che essi variamente identificavano con l'uno o con l'altro degli elementi sensibili? Il nocciolo dell'intera questione è contenuto in queste tre tesi di Talete:1) la natura della cose è l'acqua; 2) il Tutto è vivente (ha in se una anima); 3) è pieno di demoni o dèi.
    1) La prima di queste tre tesi ha potuto eclissare la seconda e la terza semplicemente perché ad essa si interessò maggiormente Aristotele, dalla cui scuola è derivata la nostra tradizione dossografica.
    I moderni storici della filosofia greca si rendono conto che l'esame delle teorie dei suoi predecessori, svolte da Aristotele nel primo libro della Metafisica, è basato sulla distinzione delle quattro cause. Il suo punto di vista non è quello storico; gli interessa sottolineare il processo per mezzo del quale fu ottenuta tale distinzione; egli suddivise quindi i pensatori precedenti a seconda che riconobbero, a suo parere, solo una “causa materiale”, o aggiunsero a quella “un principio di movimento” e cosi via. Guidato da questo schema egli classifica la sostanza prima dei milesi sotto il titolo di “causa materiale”, definita come “quella di cui tutte le cose sono composte, dalla quale esse sono generate in origine e nella quale si dissolvono alla fine, la cui sostanza persiste quantunque gli attributi mutino”. Gli storici moderni, sebbene consapevoli della mancanza di storicità propria della spiegazione aristotelica, accettano di solito la spiegazione così posta sulle proprietà “materiali” della physis, come materia continua e omogenea che riempie lo spazio. Bisogna ora chiarire che le altre proprietà attribuite alla physis sotto la denominazione “anima” e “divinità” sono almeno di pari importanza. Come vedremo, le principali divergenze tra le scuole filosofiche furono originate da differenze di opinioni riguardo a ciò che queste proprietà implicano.
    2) La seconda proposizione di Talete indica che il tutto è vivente, o ha in sé un'anima. Questa affermazione spiega la mobilità della physis. Il suo movimento, il suo potere di generare cose diverse da sé, sono dovuti alla sua vita, un principio di attività interno e spontaneo. L'affermazione aristotelica che i milesi non ammisero “un principio di movimento” appare quindi fuorviante. Ciò è dovuto al passo decisivo che portò Aristotele a cambiare le carte in tavola, facendo della physis il campo dell'oggettività. La materialità della physis è soprasensibile, e quindi è insieme materia e principio di ogni cosa, una materia di quel tipo attenuato che è attributo a tutti gli oggetti soprasensibili - anima, spiriti, divinità - ed anche a tutti i generi di eidola, fantasmi, concetti, immagini, ecc. E' un'anima - sostanza, “non corpo” e differisce dal corpo per il fatto di essere intangibile e invisibile. L'acqua, l'aria o il fuoco ai quali viene identificata, stanno con essa nello stesso rapporto del corpo con l'anima, del segno con il senso; tali elementi sono personificazioni della physis, ma la physis stessa è anima e trascende la realtà naturale “informandola” e non solo “formandola”. Questa è una delle ragioni per la quale nessuno degli ionici identifica la natura della cose col quarto elemento, la terra. La terra è corposa per eccellenza, tangibile, pesante e immobile, quindi la meno adatta ad essere il veicolo dell'anima-sostanza vivente. Si spiega anche perché i primi filosofi procedano a investigare le proprietà naturali dell'acqua, o dell'aria o del fuoco, semplici veicoli primitivi della primaria anima-sostanza alla quale è esclusivamente rivolta la loro attenzione. Oggetto delle loro speculazioni è in tal modo, fin dal principio, una entità soprasensibile, metafisica o, in altre parole, una “rappresentazione” che oltre al resto, è di origine mitica.
    3) Questa anima-sostanza, infine, è detta essere “divina”: il Tutto, dice Talete, è pieno di demoni o dèi. Questo predicato conserva l'attributo della forza sovrumana o mana, che era contenuto nella nozione del continuum magico e aveva dato origine alla duplice rappresentazione di “anima” e “dio”. La religione greca includeva due concezioni contrastanti della divinità e delle sue relazioni con l'uomo e con la natura - la concezione mistica e quella olimpica. La divinità della physis contiene così il germe di una latente contraddizione, la cui scoperta costituirà un dilemma per la filosofia.  
    Anassimene, terzo rappresentante della scuola milesia, dichiara: “Come l'anima nostra (...) è aria e ci tiene stretti in suo potere, anche tutto quanto l'ordinamento del mondo, è soffio, e l'aria, che lo contiene”
     I Presocratici, a cura di A. Lami, Fabbri, Milano 1996, 13 B 2, p.133.. Aristotele nota che: “Ci sono anche alcuni i quali sostengono che l'anima è disseminata attraverso l'universo: forse questa è la ragione per cui Talete suppone che tutte le cose siano piene di divinità”(De anima). Attraverso l'argomentazione aristotelica appare la primitiva concezione dell'anima-sostanza, come un continuum materiale, carico di forza vitale, mescolato a tutte le cose e “delimitato e rinchiuso” in varie creature viventi. E' evidente come per Aristotele ciò costituisca problema, dato che la causa materiale delle cose non può in alcun modo rendere conto del movimento. Ma aldilà del proprio giudizio, anche Aristotele vede chiaramente come, all'inizio della filosofia, “anima” e “physis” non sono semplicemente analoghe, ma sono identiche. La presupposta nascita della filosofia come fisica, si scontra dunque con l'evidenza di una non riducibilità dell'elemento primo a sostrato bruto. Le due concezioni - anima e materia prima- sono unite, proprio come a un certo livello, mana e “anima sanguigna” erano fusi nel continuum magico. Quando le proprietà della vita verranno distinte da quelle della materia inanimata, i filosofi dovranno fare la loro scelta tra la realtà ultima come mente e come materia, come vivente o come priva di vita. Qualunque scelta essi facciano, la natura dell'anima sarà sempre identica a quella della physis.
    Nell'esaminare le dottrine psicologiche, Aristotele nota: “Vi sono principalmente due punti nei quali si sostiene che ciò che è animato differisce da ciò che è inanimato, cioè il movimento e l'atto della sensazione (o percezione): e, in generale, queste sono le due caratteristiche dell'anima tramandateci dai nostri predecessori”
     Aristotele, De anima, a2, 2, in Opere IV, a cura di G.Giannatoni, Laterza, Bari 1973, p.65.. Le due funzioni vitali del muovere e del conoscere erano distinte dai primi filosofi molto meno chiaramente che da Aristotele. Per quanto riguarda la prima di esse - il movimento- la concezione primitiva sostiene che qualunque cosa, capace di muovere se stessa o altro, è vivente;  che la sola “forza movente” nel mondo è la vita, o piuttosto l'anima-sostanza. L'esistenza del movimento nell'universo è così una prova immediata della dottrina di Talete secondo la quale il Tutto ha in sé un'anima. “E nell'intero tutto affermano alcuni che essa (l'anima) si trova mescolata”, “A quanto sembra, anche Talete,(…) suppose che l'anima fosse un che di movente, se è vero che della pietra (di magnesia) affermava che avesse l'anima perché muove il ferro”
     I Presocratici, cit., 11 A 22, p.124.. Per Talete l'anima movente si identifica con l'elemento ultimo, riconosciuto nell'acqua, che pervade tutte le cose; e lo stesso vale per il “fuoco eterno” di Eraclito. Agli inizi quindi, il movimento meccanico non è distinto dal movimento vitale. Prima che essi vengano riconosciuti come fatti indipendenti e coordinati, la scienza dovrà giungere all'estremo opposto e  invece di interpretare tutti i movimenti come attività spontanee e interne della physis, tenterà l'espediente di ridurre la vita al movimento esterno meccanico, comunicato dalla collisione di particelle di materia morta.  
    La seconda funzione dell'anima - la coscienza - non era in un primo tempo, distinta dal movimento. Aristotele afferma: “Si dice che l'anima senta dolore e gioia, fiducia e paura, e anche sia adirata, senta e pensi; e si sostiene che queste  funzioni siano dei movimenti, il che potrebbe indurre a supporre che l'anima stessa sia mossa”
     Aristotele, De anima a4, 408 b 1, in Opere IV, cit., p.90.. La percezione sensibile, non distinta dal pensiero, era considerata come il modello di tutte le conoscenze, e questa è una forma di azione a distanza
     Aristotele, De anima a, 5 410 a 225, p.101.. Si sostiene inoltre che tutte queste azioni richiedono un veicolo o mezzo continuo, che unisca l'anima che conosce all'oggetto che è conosciuto. Non solo l'anima e il suo oggetto devono essere cosi uniti in contatto fisico, ma devono anche essere simili o della stessa natura. I primi filosofi sostennero che il simile conosce il simile , massima che è un caso particolare dell'assioma più generale “il simile può agire soltanto sul simile”. Qui incontriamo di nuovo un principio che sicuramente non è derivato dall'esperienza, ma accolto da una rappresentazione collettiva.
    La formula secondo la quale l'azione può avvenire solo tra oggetti “simili” è tratta dall'antica dottrina magica che raggruppa le cose in classi di affinità, unite da un continuum simpatetico. Tale continuum è, abbiamo visto, un'anima pervadente che scorre attraverso l'intera classe; è il veicolo e il medium di movimento e di interazione di tutti i tipi d'azione e quindi anche di quel tipo particolare d'azione che è la “conoscenza” o “percezione”, evidente attributo dell'anima. La massima secondo la quale il simile conosce il simile entrò a far parte del senso comune e fu accettata senza discussioni dai filosofi. Da tale principio consegue che, se l'anima deve conoscere il mondo, il mondo, deve in ultima analisi consistere della medesima sostanza dell'anima. Physis e anima devono essere omogenee. Così Empedocle considerò l'anima come composta di tutti gli elementi, mentre nel medesimo tempo considerava ogni elemento come un'anima. Le sue parole sono: “Con la terra conosciamo la terra ; con l'acqua, l'acqua; con l'aria, l'aria splendente; il fuoco demolitore col fuoco; l'amore con l'amore; e la lotta con la lotta dolorosa”
     I presocratici, cit., 31 B 109, p.237.. “Analogamente, egli, sostiene, si conosce per mezzo del simile e le cose che noi conosciamo sono costituite dai princip primi… Così quei pensatori che ammettono una sola causa ed un solo elemento, come il fuoco o l'aria, sostengono che anche l'anima è un elemento; mentre coloro che ammettono una pluralità di principî, sostengono, la pluralità anche dell'anima… coloro che introducono tra i loro principî coppie di opposti, fanno consistere anche l'anima di opposti; caldo o freddo ecc., riducono anche l'anima all'uno o all'altro di essi”
     Aristotele, De anima,  a2, 6, 21,in Opere IV, cit., p.81.. E ancora Aristotele dice altrove che: “Diogene di Apollonia, come alcuni altri, identificava l'aria con l'anima. L'aria, essi, pensavano, è composta delle particelle più piccole, ed è il primo principio; ciò spiega il fatto che l'anima conosce ed è causa di movimento, conoscendo per il fatto di essere l'elemento primario  da cui tutto il resto è derivato, e causando il movimento con l'estrema sottigliezza delle sue parti”
     Ivi, a, II, 15, 405 a 21, p.92.. Aristotele stesso sebbene perfezionasse la teoria che “il simile conosce il simile” sostenendo che la percezione  implica un processo di assimilazione, è in realtà sulla stessa linea dei pensatori precedenti. “Alla base dell'intera sua teoria della percezione c'è per lui, come per i suoi predecessori, la convinzione che la comunanza fondamentale della costituzione elementare nell'oggetto del senso e negli organi del senso sia la causa della nostra possibilità di percepire oggetti. Il processo di assimilazione con il quale egli riconcilia questi punti di vista differenti come (“il simile conosce il simile”, e “il simile conosce il dissimile”) implica in ogni caso un intermediario per cui e attraverso il quale vengono poste in correlazione. Tale intermediario ha di fatto una natura comune con entrambi”. (I. Beare).La possibilità del movimento e della conoscenza viene in tal modo spiegata dai filosofi greci per mezzo della concezione della physis come anima-sostanza nella quale appaiono riprodotte tutte le caratteristiche fondamentali del continuum simpatetico della magia e dell’alchimia.
    La prova decisiva che la concezione filosofica discende direttamente da quella magica, e che a quella magico-alchemica renderà il concetto di materia animata, è l'assunzione, altrimenti gratuita e inspiegabile, che “il simile può influenzare e conoscere soltanto il simile”.  Possiamo comprendere il senso di questa assunzione solamente se sappiamo che il continuum simpatetico era, alle origini, il substrato dell'affinità; che era il veicolo dell'interazione solo all'interno di un gruppo della stessa specie e che l'affinità è la forma primitiva di tutte le “somiglianze”.
    Il Tutto, non solo è vivente ma è anche pieno di dèmoni. L'“acqua” di Talete è “pervasa da un potere divino capace di muoverla” in altre parole la sostanza animata possiede un mana soprannaturale, un'energia demoniaca, distinta dalle proprietà naturali dell'acqua. Dell’“illimitato” di Anassimandro, Aristotele dice che è “il divino immortale e eterno”
     Aristotele, Fisica, Y 4, 203 b 12, in Opere III, cit., p.29.. Anche dell'“aria” di Anassimene si parla come di un dio. Diogene di Apollonia dice di questo elemento che “ciò che gli uomini chiamano aria è ciò che possiede il pensiero, e ciò che dirige tutto, e domina tutto; poiché questo è, credo, Dio, che giunge in ogni luogo, dispone di tutte le cose ed è in ogni luogo”
     I presocratici, cit., 13 A 5, p.129..
    Parlando dei corpi celesti Aristotele dice: “ Fin dalle età più remote, i nostri padri ci hanno tramandato la tradizione in forma mitica che queste sostanze (il firmamento e i corpi celesti) sono dèi, e che il divino abbraccia l'intera natura. Il resto della tradizione è stato aggiunto più tardi in forma mitica, per persuadere la moltitudine e per la sua utilità nei confronti delle leggi e delle convenienze: essi dicono che le divinità hanno forma umana, o simili agli altri animali, e così via. Ma se noi separiamo il punto di partenza da queste aggiunte e lo prendiamo isolatamente – cioè che essi pensavano che le sostanze primarie fossero le divinità – possiamo considerarlo come un'affermazione ispirata divinamente e riflettere che, mentre probabilmente ogni arte e scienza è stata spesso sviluppata fin dove era possibile e poi messa da parte, queste opinioni hanno persistito fino ad oggi, come reliquie di antichi tesori”
     Aristotele, Metafisica., Λ 8, 1074  b 1, in Opere VI, cit., p.156..
    Che l'alchimia possa rivendicare come precedenti e come fonti le concezioni presocratiche di “principio”, di “elemento”, di “natura”, è forse affermazione azzardata in quanto al rapporto di vicinanza concettuale tra due mondi irriducibili e due scienze diverse per scopi e metodi. In ogni caso non è impossibile avvicinare la generale visione della realtà delle due tradizioni menzionate, soprattutto in relazione alla comune opposizione ai principî dominanti della vera e propria scienza moderna.
    Rivolgendosi alla physis, i primi filosofi, si rivolgevano al Tutto, cercando l'identità di ciò che appare come diverso. La traduzione di physis con “natura”, se rende bene il termine nel senso aristotelico, finisce con il ridurre il campo d'indagine a ciò che si presenta all'uomo come “oggetto” di studio. Ma per Talete la physis, come abbiamo visto, non era solo natura, ma qualcosa in più; così per Eraclito essa non poteva coincidere con le molteplici parti divenienti, ma con il divenire incessante all'interno dell'unità dell'apparire. La physis è l'essere, e l'essere deve essere indagato: questa è la base di partenza della filosofia. Fisica e metafisica sono distinzioni successive dell'unico campo di ricerca costituito dall'ontologia. Determinare il rapporto tra ciò che diviene e ciò che resta immutato nelle cose significa cercare il principium individuationis della realtà: il principio e il fine, il componente e il composto.
    Se non è esatto considerare la filosofia una fisica “non scientifica”, tanto meno è giusto inserirla semplicemente in un processo di evoluzione e di razionalizzazione della teologia. Il passaggio dal mito allo studio della physis significa infatti la liberazione della realtà dalle costrizioni imposte dalla fantasia umana, per lasciare che il materiale per la ricerca sia costituito esclusivamente da ciò che dell'Essere si rivela e si impone. E il Tutto mostra di non contenere ciò che il mito racconta: non teogonie, non vicende di dèi e titani, ma acqua, terra, fuoco, divenire.
    Il mito, unica fonte di verità prefilosofica, doveva lasciare il posto alla ricerca della verità che si manifesta.
    “Pur essendo comune la ragione, vivono i più come se avessero un loro particolare intendimento”
     I presocratici, cit., 22 B 2, p.155. dice Eraclito; la ragione, il lógos è comune. Il lógos lascia parlare le cose, senza che al loro “discorso” si intreccino i motivi del mito.
    Il divenire evidente mostra il passare delle cose da uno stato all'altro, incessantemente, senza che nulla possa dirsi definitivamente “annullato”; un albero che nasce dalla terra, cresce e muore tornando alla terra deve avere qualcosa di “identico” alle altre cose, che ne permette la stessa permanenza nell'apparire pur nella diversità: nulla esce dal Tutto, dalla physis e quindi qualcosa deve esserne l'arché, l'origine e il principio. Se tutte le cose mutano, ciò che vi è di identico tra le cose deve necessariamente essere immutabile e quindi eterno. E questo principio deve avere in sé la forza per permettere il movimento del molteplice che da esso deriva, essendo composto in ultima analisi di nient'altro che di esso. La Grande Opera degli alchimisti consisterà proprio nella ricerca di un principio in grado di agire dall’interno sulla natura.
    Aristotele dirà che i primi pensatori non ritennero di pensare ad altri principî oltre a quelli materiali. Principio ed elemento (stoichéion) s'identificano per la prima volta nel pensiero occidentale. In effetti Aristotele non sbaglia dicendo questo, sbaglia invece ritenendo che l'elemento sia stato per i presocratici solo “causa materiale” delle cose.
    Cercando l'identità di ciò che è diverso, non si cerca se un principio unificatore esista, dato che ciò è dimostrato dall'unità delle cose nel campo del manifestarsi; il problema consiste nel trovare “che cosa” sia tale principio. E cercare il “cosa” significa determinare quel qualcosa che determina ogni determinazione ulteriore. E questo fu lo scoglio dei milesi che dovettero faticare a ricercare un principio quanto più indefinito e indeterminato, ma di cui si potesse pensare la positività. Talete pensò all'acqua, arrivando però a caratterizzarla come un'ombra dell'acqua conosciuta dall'uomo. Pressappoco lo stesso fece Anassimene con l'aria, avvantaggiandosi però della minor determinatezza di un elemento intangibile. Anassimandro capì il dilemma e si orientò verso un àpeiron che è concetto totalmente negativo e quindi non riscontrabile nella realtà e soprattutto non immaginabile.
    Da Parmenide ed Eraclito arrivarono i limiti del discorso sulla natura degli enti. Il principio divenne “energia”, “legge” ed “essere”, perdendo quella cosalità verificabile attaccata da Aristotele.
    A questo punto la filosofia si pone il problema fondamentale, il rapporto tra essere ed ente, e per ovviare all'ostacolo imposto da Parmenide ci si rivolge a definire un pluralismo nell'essere che renda conto del diveniente. Nella sua originarietà e fondamentalità l'essere si presenta ora come una pluralità di unità eterne e immutabili (i quattro elementi di Empedocle, le omeomerie di Anassagora, gli atomi di Democrito). I fenomeni vengono a costituirsi tramite derivazione dell'essere, attraverso la composizione delle unità elementari dell'essere.
    E' significativo considerare che questo sarà il risultato che Boyle otterrà, due millenni dopo, nel tentativo di superare l'universo concettuale costruito dall'alchimia: un assemblaggio di elementi semplici il cui numero vedrà moltiplicare ben oltre quello classico degli elementi aristotelici.  D'altronde lo stesso concetto di omeomerìa, “parte simile”, è talmente simile a quello di elemento chimico da evidenziare la continuità del problema filosofico originario nei secoli.
    La presupposta possibilità di trasformazione di un metallo in un altro, bandiera tanto osteggiata degli operatori alchemici, è già in nuce nelle considerazioni di Anassagora, nelle quali per altro la materia ha già in sé il contatto diretto con il Nous, con la Mente ordinatrice, con la divinità pura; la ricerca della struttura è già dunque rivelazione della logica archetipica della realtà. Ma nel contempo proprio Anassagora compierà un passo verso il dualismo tipicamente occidentale, concentrando il divino fuori della natura come principio regolatore che agisce dall'esterno. La physis comincia a diventare così natura e si lascia spazio alla formazione di una zona d'ombra che sarà il luogo dell'invisibile, di ciò che non si manifesta. La filosofia pone le basi perché la scienza si costituisca come studio di una parte della realtà, l'apparenza fenomenica.
    E' evidente che una scienza applicata ad una parte della realtà e slegata dall'indagine sui principî metafisici debba finire per perseguire l'efficacia tecnica, fino ad arrivare a produrre il proprio oggetto, com’è nella scienza moderna.
    La genesi della ricerca scientifica è d'altronde indipendente da quella del sapere tecnico, dato che l'analisi dell Tutto operata dai primi fisici non aveva altri obiettivi che la pura cognizione della realtà. In origine la téchne non ha il significato di imposizione di leggi umane alla natura, ma, al contrario, è sostanzialmente percezione dello svelamento della Forma già inerente alla physis. La téchne non s'articola originariamente alla scienza perché la scienza non ha ancora bisogno di téchne, nondimeno l'atteggiamento di fronte alla natura è lo stesso: è ricerca di una verità che già esiste, ma esiste come un velo talmente vicino agli occhi che è necessario distogliere lo sguardo dal resto per coglierne il profilo. E questo è anche il metodo dell'arte: “Nel lavoro dell'arte, proprio come nella produzione naturale, è la causa finale che determina e comanda l'insieme del processo produttivo; la causa efficiente – l'artigiano, i suoi attrezzi, la sua téchne – è solo lo strumento, grazie al quale una Forma preesistente modella la materia”
     J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, tr.it. di M. Romano e B. Bravo, Einaudi, Torino 1970, p,.215..
    Aristotele fissa nel “principio d'imitazione” il modello fondante dell'estetica
     Aristotele, Poetica, 1447a 14-19 e passim., in Opere X, cit., p.78., su di esso basa sia il suo modo di classificare le arti, sia la definizione che dà di ognuna di esse. In effetti l'artista greco, così come l'artigiano greco si trova davanti un modello perfetto costituito dalla natura stessa; eppure non si tratta di imitazione. Colui che imita infatti deve compiere uno sforzo ermeneutico per cogliere la razionalità che risiede in ciò che è imitato, ma così facendo ne traccia egli stesso i tratti adeguandoli alla propria sensibilità.
    E' significativo ricordare che l'arte arcaica non comprendeva nulla che non avesse a che fare con un'attività materiale e con l'uso di strumenti; fuori dall'arte restavano così la poesia, la danza, il mimo.
    Per Nietzsche il rapporto tra le due dimensioni dell'espressione umana è alla base della nascita dello spirito tragico, in quanto l'arte figurativa “apollinea” in continuo rapporto con quella non figurativa “dionisiaca” compone l'insieme dell'istinto artistico umano, discorde e in bilico tra l'armonia dell'essere e l'ebbrezza del divenire. La téchne si caratterizzava quindi come lo spazio della rivelazione dell'essere unitario, dell'identità del diverso, lasciando alla creatività umana l'espressione dell'evidenza del divenire; era in sostanza “un modo dell'aletheia: un modo, cioè, di rivelare l'essente”
     M. Heidegger, Su l’umanismo, in Che cos’è la metafisica?, La Nuova Italia, Firenze 1967, p.109.. Nella frenesia dionisiaca l'uomo “non è più artista, è divenuto egli stesso opera d'arte”
     F. Nietzsche, La nascita della tragedia, a cura di P. Chiarini, Laterza, Bari 1995, p.26., nella téchne è invece “solo lo strumento”
     J. Vernant, op.cit., p.215. che concorre alla costruzione dell'opera.
    E’ chiaro che in questo periodo la tecnica non può svincolarsi da una certa soggezione rispetto all’esistente, e quindi non può essere capace di trasformare davvero il mondo. Il sogno degli alchimisti è dunque disilluso già dai presupposti epistemologici derivati dalla filosofia greca e deve attendere la nascita della scienza moderna per trovare fuori dall’arte o dal misticismo una possibilità di espressione. L’alchimia si colloca nella storia della scienza come un contributo non-scientifico capace però di smascherare quelle che a torto erano considerate scienza e tecnica, ma che scienza e tecnica non potevano ancora essere. L’alchimia si fa carico di tutto il bagaglio di concezioni animistiche che mai era stato debellato dall’originario ingresso ad opera dei presocratici, e, portandone alla luce la forza, ne consente il superamento.
    Il termine téchne si addiceva in principio ad un'attività essenzialmente servile, poiché servile doveva essere il compito dell'artista-artigiano di fronte alla Forma imposta dalla realtà naturale, come, ancora prima, lo era stato di fronte alla sapienza magica. “La téchne artigianale non è un vero sapere: l'artigiano non ha nessuna intelligenza del suo metodo(…) si contenta d'applicare servilmente le ricette che gli sono state insegnate”
     Ivi, p.212.. La téchne, dunque, è originariamente rivelazione, proprio come lo sarà per gli alchimisti e quindi non può distaccarsi dalla religione e dall’arte.
    E’ evidente come sia la téchne greca che la “tecnica” alchemica non possano essere in alcun modo assimilate alla tecnicità della scienza moderna. Oggi la scienza, a seguito della rivoluzione scientifica, non è un “vedere”, ma un “fare”: essa pone una realtà - e non nel senso idealistico di una posizione di concetti, bensì nel senso di una posizione di oggetti, di cose. L’alchimista che cercava di forzare la natura non produceva uno sforzo tecnico, poiché il fine era il compimento di una perfezione che già risiedeva nella natura stessa. L’alchimista quindi accellerava il dinamismo naturale, ma non lo sostituiva; per questo l’alchimia era sì un’arte, ma non certo una scienza. Ciò non toglie che il bagaglio di contributi ideali e psicologici dell’alchimia possano ancora servire la scienza per  individuare al suo interno i momenti da escludere come ostacoli per la scienza stessa e per impedire che lo “scienziato” finisca per soffocare la totalità della “persona”.



































    § 1.3 LA TRASFORMAZIONE DEGLI ELEMENTI


    L'evoluzione che ha caratterizzato la chimica
     Per una storia della chimica, soprattutto nel suo rapporto con le tradizioni alchemiche, cfr. M. Giua, Storia della chimica: dall’alchimia alle dottrine moderne, Chiantone, Torino 1946; A. Di Meo; H. Leicester, Storia della chimica, isedi, Milano 1978;L.Caglioti, Storia della chimica, Marsilio, Venezia 1990; P. Galluzzi, Storia della scienza, Einaudi, Torino 1991;, a partire  soprattutto dal sedicesimo secolo, affonda le sue radici in un periodo lontanissimo e fa luce sul parallelo sviluppo della scienza moderna.
    Le stesse categorie fondanti rendono conto di un mutamento sostanziale di alcuni concetti e della continuità nel cambiamento in relazione ad altre più generali concezioni.
    Nell'antichità con il nome di chimica fu indicata l'arte di trasformare i metalli comuni in oro, argento o loro leghe; esso deriva probabilmente dalla parola egiziana cham o chemi, che significa Egitto o “nero”. L'origine del nome chimica è quindi ancora incerta ed è più semplice considerare la chimica come l'arte di “preparare artificialmente oro e argento”; come si trova in Suida, enciclopedia del sec. undicesimo, che raccoglie quanto la tradizione ci ha tramandato in merito a tale questione. Poter abbracciare la storia della chimica, dai tempi più remoti fino ad arrivare al periodo di congedo dall'alchimia, non è cosa facile senza il sussidio di una classificazione in periodi. Seguendone una, accettata dalla maggioranza degli storici della chimica, si danno i seguenti periodi:
    1) Periodo pre-alchimistico; si estende dalle origini delle prime civiltà fino al secolo quarto dell'era volgare. Si distingue per la mancanza di nozioni generali che raggruppino le conoscenze acquisite, le quali vengono tramandate per tradizione attraverso le caste sacerdotali.
    2) Periodo alchimistico; si estende dal secolo quarto d.C. al secolo sedicesimo ed è caratterizzato, oltre che dalla ricerca del potere magico della pietra filosofale, dell'elixir di lunga vita, dell'alkahest o solvente universale, anche dalla formazione del mito, di cui quello di Ermete Trismegisto è rimasto famoso.
    3) Periodo di unificazione; con il quale ha inizio lo strutturarsi della chimica come vera e propria scienza autonoma. Questo periodo abbraccia i secoli sedicesimo, diciassettesimo, diciottesimo e comprende quattro sottoperiodi che, dalla medicina alla fisica, hanno aperto le porte alla chimica moderna. Questi sottoperiodi sono: quello iatrochimico, quello della chimica pneumatica, della teoria del flogisto e quello del sistema antiflogistico di Lavoisier.
    Questi quattro sottoperiodi saranno ulteriormente approfonditi, dato che è qui che si segna l'iniziale distacco dall'alchimia verso un progressivo inserimento della chimica come scienza autonoma e indipendente. Gli altri due periodi con i quali si è classificata l'evoluzione del pensiero chimico sono: il periodo delle leggi quantitative, che si estende per i primi sessanta anni del diciannovesimo secolo e comprende lo sviluppo della teoria atomica di Dalton, della teoria atomico-molecolare di Avogadro, le ricerche per la denominazione e determinazione dei pesi atomici e la riforma atomica di Cannizzaro con la legge degli atomi. L'ultimo grande periodo, il periodo aureo della chimica si estende dalla metà del milleottocento (1860 all'incirca), ed arriva fino ai giorni nostri. In poco meno di un secolo si svilupperanno la dottrina della classificazione periodica degli elementi, la nozione della valenza, la stereochimica e si approfondiranno i metodi di indagine sulla costituzione dei corpi e la sintesi chimica al punto da infrangere ogni barriera tra la materia inerte e quella vivente.
    In questo ultimo periodo con lo sviluppo della fisica atomica  e delle reazioni nucleari sembra prender vita l'antico sogno degli alchimisti della trasmutazione degli elementi, rinnovato nel 1600 proprio da colui che aveva segnato la fine della alchimia e l'avvento della chimica come scienza autonoma, con la classificazione del concetto di “elemento” (Robert Boyle).
    Prima di parlare del periodo di unificazione tra alchimia e scienza, dalla iatrochimica fino alla teoria dell'antiflogisto, è doveroso ricordare i risultati della alchimia in campo scientifico attraverso i quali la prima chimica e la scienza in generale hanno trovato supporto, sfatando in parte quel credo secondo cui le due tradizioni non siano mai state legate tra loro. Nel secolo quattordicesimo gli alchimisti ritennero vane le ricerche sulla pietra filosofale, e l'unica via rimasta aperta, in questo periodo di unificazione del metodo sperimentale, non era quella di correggere la teoria sui metalli - avuta in retaggio dagli alchimisti dei secoli precedenti - ma di abbandonarla, visti inutili i tentativi per trovare i supposti costituenti dei metalli. Ma contro questa soluzione continuava ad opporsi la forza della tradizione e la stessa organizzazione della ricerca alchimistica, chiusa nel proprio ermetismo e quindi incapace di assimilare i principi primi del metodo sperimentale. Tuttavia non si può negare che l'alchimia, in particolare quella occidentale, non abbia allargato le conoscenze su molti composti chimici; alcuni insegnando a proporli meglio, altri scoprendoli addirittura. Uno di questi sarà l'acido solforico, conosciuto dopo il secolo undicesimo, e menzionato anche da Alberto Magno; questo acido fu ottenuto per riscaldamento del solfato di ferro e dell'allume. Ancora l'acido nitrico, che fu ottenuto per riscaldamento di un miscuglio di nitro, solfato di rame e allume. Anche i sali ammonici, noti in parte agli alchimisti greco-egiziani e arabi, vennero meglio studiati.
    Il primo vero tentativo di separare e liberare la chimica dai vincoli dell'alchimia, e dare ad essa il grado di scienza, lo troviamo nella figura di Paracelso. Gli scritti che ha lasciato sono numerosi e complessi, e non è chiaro quali siano le opere originali e quali quelle composte dai suoi allievi; oggi si tende ad etichetttare separatamente i suoi interessi ripartendoli tra alchimia, astrologia e farmacia. Paracelso reputava che tutti questi ambiti dovessero interagire, per poter produrre dei risultati effettivi. Un tratto caratteristico della medicina alchemica di Paracelso fu l'importanza rivestita dagli influssi e dalle energie celesti. I pianeti e i metalli erano strettamente correlati; l'oro per esempio si diceva che fosse sotto l'influsso del sole, che crescesse in seno alla terra fino a perfezionarsi, e che fosse esso stesso emblema del potere solare. Ogni metallo era collegato ad uno specifico pianeta ed era detto contenere al suo interno un “arcano”, un potere celeste derivato direttamente dal pianeta che lo governa. Quest'arcano poteva essere liberato attraverso il procedimento alchemico e poi utilizzato come medicina.
    Da Paracelso fino a Lavoisier, e questo grazie soprattutto al metodo sperimentale, si avrà una degenerazione dell'alchimia, dovuta all'inglobamento di questa da parte delle altre scienze “forti”, e parallelamente, un'evoluzione di queste, in particolare la chimica e la fisica. L'accostamento di Paracelso a Lavoisier può sorprendere in quanto è abissale la distanza tra i due pensatori e tra le relative ricerche, ma entrambi, da cultori della scienza, hanno contribuito a preparare terreno fertile per le successive esplicazioni di teorie già contenute in nuce dal periodo genetico del metodo scientifico.
    Nasce con Paracelso la iatrochimica, quell'insieme di procedimenti tendenti a fondere la medicina con la chimica nascente, sfruttando il chemismo dell'organismo, e assegnando a determinati composti chimici, (o alchemici?) la funzione di riparare agli squilibri che si producono con le malattie del corpo umano.
    Il vero scopo della chimica, dirà Paracelso, non consiste nella fabbricazione dell'oro, ma nella preparazione delle medicine. Se il corpo umano risulta esser formato da particolari sostanze, un cambiamento che si produce tra queste origina necessariamente le malattie, le quali non potranno che esser guarite con medicine che ripristinino il normale chemismo. E' questo il sunto della iatrochimica di Paracelso, il cui principio guida è che i fenomeni vitali siano di natura chimico-medica, dal momento che si accetta la tradizionale teoria alchimistica della costituzione dei corpi. La teoria afferma che i tre costituenti fondamentali della materia siano il mercurio, il sale e lo zolfo, ai quali corrispondono le proprietà della volatilità, della combustibilità e della solidità. Questi tre elementi sono alla base del microcosmo, ma sono anche in rapporto con il macrocosmo, formato dall'anima, dallo spirito e dal corpo.
    Passando poi a determinare la causa delle malattie, Paracelso afferma che la febbre e la peste sono prodotte da un eccesso di zolfo nell'oganismo; quando aumenta il mercurio sopravviene invece la paralisi; così come dall'eccesso di sale si possono produrre le dissenterie e l'idropisia. Oltre a queste sostanze, nell'organismo vivente agisce uno spirito regolatore di tutte le funzioni detto “archeus”; quando questo principio si altera si rompe l'equilibrio e si producono le malattie, contro le quali può agire la medcina o “arcana”.
    La tendenza iatrochimica contribuì al progresso della chimica non solo per una visione più concreta di alcuni fenomeni generali, come il riconoscimento dell'analogia esistente tra i processi di combustione, di calcinazione dei metalli e di respirazione, la spiegazione della combustione chimica col principio di forze esistenti tra i costituenti, ma anche la preparazione e la scoperta di vari composti importanti per la farmacia.
    E' evidente come una prima distanza si stabilisca tra l'ultima fase della ricerca alchemica e la fase genetica della chimica proprio in relazione alla evoluta pragmaticità di quest'ultima. La trasformazione dei metalli in oro, infatti, lungi dall'essere una ricerca di natura economica, era completamente distinta da interessi riguardanti il valore di scambio del nobile metallo che si voleva ottenere. Quando lo studio degli elementi entrò a far parte della tradizione medica, in veste  strumentale, esso perse necessariamente i caratteri ideali e spirituali, diventando sempre più un mezzo, e perdendo l'impronta autarchica che aveva avuto.
    Nonostante la iatrochimica abbia segnato un gran passo avanti nello sviluppo della chimica ancora con essa si rimane ancorati ad una psudo-scienza, che rielabora lo scopo della alchimia ma non i suoi procedimenti. Come la farmacia non è la chimica così la iatrochimica non poteva risolvere tutto il complesso problema che la scienza nostra, in via di formazione andava impostando. Il primo passo da compiere era evidentemente il riuscire a rendere le ricerche alchemiche subordinate ad altri scopi, e quindi ad altre scienze. Ed ecco spuntare, da ambiti diversi, ricercatori che nei secoli diciassettesimo e diciottesimo daranno con le loro scoperte un contributo notevole alla realizzazione delle prime teorie chimico-scientifiche. Una di queste vie sarà quella intrapresa da Boyle attraverso la pneumatica, lo studio dei gas ma in particolare l'elaborazione del concetto di “elemento”.
    Di certo l'impronta teorica maggiormente caratterizzante la nascita della nuova scienza è quella imposta da Bacone. Egli dichiarava che “l'uomo è l'interprete della natura e il suo dominatore” e che “quando l'eperimento procede secondo una legge ben definita, in modo conseguente ed ininterrotto allora vi è da aspettarsi qualcosa di buono per la scienza”. Bacone esercitò una indubbia influenza sui chimici del sedicesimo e diciassettesimo secolo, pur non avendo realizzato nel campo della conoscenza della natura nessuna significativa scoperta. Il principale colpo inferto dall'opera di Bacone alla tradizione scientifica precedente si racchiude nell'affermazione dell'eperienza come argomento decisivo nelle controversie scientifiche e nella diffusione di nuovi principi per l'organizzazione della scienza stessa. Al giudizio della ragione e dell'esperimento vennero sottoposti non solo i fatti, ma anche le dottrine religiose degli scolastici, i dogmi degli antichi filosofi ed in particolare la filosofia naturalistico-aristotelica. Alla fine del diciassettesimo secolo le posizioni ideologiche e gli ipse dixit non erano più considerate come soluzioni già pronte dei problemi, ma servivano solo come termini di confronto o come punti di partenza per l'impostazione delle esperienze. Non appena l'esperimento prese  il posto che gli spettava, l'autorità di Aristotele fu messa in discussione e le sue idee fisiche dichiarate insostenibili. Tra i maggiori accusatori troviamo le figure di Descartes, Boyle e lo studioso francese E. de Clave il quale scriveva nel 1663 di voler cacciare i peripatetici. L'accusa maggiore mossa ad Aristotele e ai suoi seguaci era notoriamente la mancanza corrispondenza di tesi ed esperimenti, e il conseguente avventurarsi nelle generalizzazioni più audaci. Esattamente come risposta alle nuove esigenze di autonomia nascono le radici di una vera e propria scienza nuova: la chimica.
    Il primo passo decisivo fu compiuto da Boyle con la pretesa trasformazione del concetto di “elemento chimico”, quale ultima parte indissolubile della materia. Boyle cercò di verificare gli esperimenti chimici delle scuole di Aristotele e di Paracelso, sforzandosi di interpretarne i risultati alla luce delle teorie allora accettate, ma più indagava e più si convinceva che le teorie aristoteliche e paracelsiane non erano in grado di dare una accettabile spigazione dei risultati delle osservazioni sperimentali. L'attenzione di Boyle era certamente dominata dalle grandiose scoperte della fisica di allora, dalle teorie meccaniche del mondo dei corpuscoli, dalla auspicata sintesi di filosofi e chimici. Dopo un decennio di scrupolose osservazioni, Boyle pubblicò nel 1661 la sua opera più famosa, Il chimico scettico, nella quale si procede a dimostrare la irrealtà degli elementi di Aristotele (terra, aria, acqua, fuoco) e di quelli di Parcelso (sale, zolfo e mercurio), introducendo nella chimica i fondamenti della teoria corpuscolare. Utilizzando come esempi i risultati dei suoi esperimenti egli concentrò la sua attenzione sul contenuto dei termini “elemento”, “principio” utilizzati dai seguaci di Aristotele e Paracelso. Grazie alla estrema logicità delle sue argomentazioni ed alla chiarezza dell'esposizione delle sue vedute, Boyle provvide a dare un duro colpo alla linea di pensiero degli alchimisti.
    “Io non avanzo, come i veri scettici, dubbi aventi lo scopo di convincere che tutto al mondo è dubbio e resterà tale per la conoscenza umana, ma io li avanzo con lo scopo e la speranza di liberarci finalmente da loro,  raggiungendo quella indubbia verità che cerco e penso di trovare…”
     R. Boyle, Il chimico scettico, in Opere, Utet, Torino 1977, p.480.. Un dubbio metodico, dunque, che serve a Boyle per poter scardinare le costruzioni tradizionali.
    Boyle spiega che nelle trasformazioni chimiche occorre considerare le particelle più minute della materia, gli atomi, e che bisogna studiare la chimica in modo scientifico: “ Poiché osservo che in questi ultimi tempi, cominciano a studiare la chimica, come essa certamente merita, persone istruite che prima la disprezzavano (…), discende che differenti rappresentazioni chimiche delle questioni filosofiche vengano accettate come stabilite e riconosciute e vengano adottate da grandi srittori, naturalisti e medici. Ma io temo che ciò finisca per riuscire dannoso per il progresso di una filosofia seria… e da quanto posso giudicare esistono migliaia di fenomeni referentesi al corpo umano che difficilmente potrebbero essere interpretati chiaramente e convincentemente da coloro che, limitandosi alla spigazione delle cose sulle basi del sale, dello zolfo e del mercurio o da altre concezioni chimiche, non prestassero alcuna attenzione ai moti e alle forme delle minute particelle della materia…”
     Ivi, p.499. Bisogna notare come Boyle in questa introduzione non metta subito in evidenza quanto sia insoddisfacente la teoria di Paracelso, né tantomeno l'immediata esigenza della sua sostituzione.
    “ Nonostante i sottili ragionamenti con i quali mi sono incontrato nei libri dei peripatetici e le eleganti esperienze che mi sono state mosrtate nei laboratori dei chimici, sono talmente diffidente ed ottuso per natura da pensare: se nesuno di loro non può produrre argomenti più convincenti, per dimostrare la verità delle proposizioni, di quelli che abitualmente adducono, è del tutto naturale che alla persona possano rimanere dei dubbi relativamente al numero stesso di questi ingredienti materiali dei corpi misti, che alcuni vorrebbero farci accettare come elementi, e di conseguenza anche sugli altri principi”
     Ivi, p.513.. Eleutherius, personaggio che nell'opera prende le difese della tradizione, prega a questo punto di spiegargli il significato del termine “elemento”  e Carneade, pseudonimo di Boyle, risponde che con il nome di elementi chimici sono da intendersi “alcuni corpi primigeni e semplici che, non essendo costituiti di altri corpi o l'uno dell'altro, rappresentano le parti componenti di cui sono formati direttamente tutti i cosidetti corpi composti e nei quali questi ultimi possono in definitiva essere decomposti”
     Ivi, p.516.. Boyle cercando di tenere ancora un po' in vita l'autorità di Aristotele e la teoria dei quattro elementi, per poterla meglio confutare, porta ad esempio il pezzo di legna che bruciando nel fuoco si decompone nei suoi quattro elementi principali che lo costituiscono: “Semplicemente guardando un pezzo di legna verde che arde nella stufa, potrai senza fatica distinguere nelle sue parti disgiunte quattro elementi…Il fuoco si manifesta nella fiamma col suo colore; il fumo si innalza nel tubo e sparisce traformandosi in aria, dimostrndo in maniera sufficiente l'apparetnenza a questo elemento; l'acqua nell'aspetto che le è proprio, cigola e ribolle alla estremità del ceppo…e la cenere, col suo peso, aspetto infuocato e secchezza dimosra la sua appartenenza all'elemento terra”
     Ivi, p.518.. Successivamente si passa a criticare la teoria di Paracelso affermando che gli iatrochimici “hanno il cervello offuscato dal fumo dei loro fornelli e che sono troppo ignoranti per comprendere una così sottile teoria”
     Ivi, p.590.. Ma il colpo decisivo è riservato ad Aristotele. Boyle sostiene che nessuna esperienza potrebbe mostrare nessuno degli elementi uscire dall'oro in seguito ad un qualsiasi trattamento. Boyle fa chiaramente capire che egli non si accontenta né della teoria dei quattro elementi di Aristotele, né dei tre principi della chimica medioevale; in virtù del fatto che queste teorie non rispondono a molte domande, così come non danno atto alla stessa esperienza.  La critica di Boyle mossa a Paracelso e ad Aristotele mira soprattutto ad evidenziare il limite delle stesse teorie secondo le quali, gli elementi indecomponibili sarebbero soltanto o tre o cinque. Se gli elementi sono formati dall'unione di alcune piccole e primordiali particelle della materia, costituenti numerosissimi corpuscoli assai simili gli uni agli altri, non sarà assurdo ritenere che di tali associazioni primigenie ne possano esistere molte più di tre o cinque. Boyle precisa che quando si parla di corpuscoli non si devono intendere  quelle parti elementari come la terra o l'acqua, o ai principi ipostatici come il mercurio, il sale, lo zolfo. Nella sua opinione non ha nessun fondamento indicare un dato metallo come elemento basandosi esclusivamente su una prova che non sia in grado di escludere le ipotesi contrarie. L'analisi di Boyle riguardo al concetto classico di elemento è straordinariamente simile alla critica che Anassagora aveva rivolto alle teorie fisiche di Empedocle.
    Il pensiero presocratico era venuto evolvendosi secondo una linea di sviluppo che aveva visto sempre più l'arché della physis distaccarsi dalle determinatezze proprie degli elementi fisici. Le tesi di Parmenide erano state un vero e proprio ostacolo insuperabile per chi cercava una soluzione realistica e praticamente comprovabile del senso della realtà. Empedocle, tornando alla ricerca dello stoichéion, aveva dovuto inserire la pluralità all'interno dell'essere, come in seguito avrebbe fatto Platone nel Sofista; ciò salvaguardava la realtà del divenire e insieme il principio dell'unità originaria dell'essere. Anassagora però oltrepassa la concezione empedoclea dell'essere, non per riconveregere sulla concezione parmenidea dell'illusorietà del divenire, ma per giungere a quella conciliazione di esperienza e ragione che ancora sfuggiva ad Empedocle. Anche Anassagora tiene fermo infatti il principio della permanenza dell'essere, e cioè che l'essere non può generarsi dal niente e non può annullarsi; pertanto, non solo i quattro elementi, ma tutte le cose preesistono nell'unità dell'essere. Non solo, ma poiché un ente può diventare un qualsiasi altro ente -  ad esempio il cibo diventa carne del vivente, e la carne, con la morte, diventa terra e acqua -, è allora necessario affermare che in ogni ente vi è già tutto ciò che esso può diventare, e quindi in ogni ente vi è il Tutto. Ed il Tutto è infinitamente divisibile, come aveva dimostrato Zenone. Anassagora ricorre allora ad una soluzione ingegnosa: dato che dividendo un ente si trovano sempre particelle sempre più piccole di quello stesso ente, si ricava che l'essere stesso di quell'ente è rappresentato da piccolissime omeomerie (parti simili) che in seguito alla loro unione formano l'ente visibile. Quando una maggioranza di omeomerie dello stesso tipo si aggregano, si forma un ente particolare e diverso dagli altri. Non ha quindi senso cercare gli elementi pricipali della natura, dato che l'essere stesso è principio, nelle sue diverse forme molteplici, rappresentate dalle omeomerie. Confrontando il discorso di Anassagora con quello di Boyle, si nota che la soluzione è apparentemente la stessa: tutti i singoli semplici elementi materiali sono principi, e le cose sono diverse in virtù della diversa asociazione di particelle. Ma la differenza fondamentale è già chiara, e riguarda il modo di intendere il concetto stesso di elemento. I presocratici non avevano ancora inteso la divisione tra fisico e metafisico, ed il loro era un discorso decisamente di natura ontologica.
     L'elemento che cercavano i Fisici greci era insieme arché e stoichéion, principio e costituente, e proprio per questo ogni cosa composta da quel principio era Essere. La scienza moderna nasce invece esattamente a seguito della divisione di fisica e metafisica, di sensibile e soprasensibile. E' la seconda navigazione di Platone che segna il distacco della ricerca scientifica dall'essere, dato che l'oggetto della scienza diventa necessariamente il mondo fisico. Boyle, cercando gli elementi costituenti la realtà fisica, non può uscire dal circolo che parte dall'ente e torna all'ente. Ecco perché la critica ad Aristotele non può sortire effetti rivoluzionari se non rispetto alla critica al principio di autorità. Boyle associa nella critica alchimia e aristotelismo, iatrochimica e chimica pratica, tralasciando di considerare la portata di un pensiero, come quello alchemico, che ancora non ha fatto propria la distinzione tra elemento e principio.
    Gli alchimisti non si preoccupavano di isolare gli elementi per poi risalire alla composizione di tutte le cose, ma al contrario, cercavano negli elementi delle proprietà (combustibilità, volatilità, fissità) che come le Forze di Empedocle, potessero rendere conto del divenire delle cose visibili. A questo proposito è interessante rilevare la differenza sostanziale tra la concezione di materia universale quale è intesa da Boyle, e la materia universale dell'alchimia. Quest'ultima era concepita come vero e proprio principio e fondamento del reale, mentre la materia di Boyle è puro sostrato.
    L'elemento chimico diventa invece, con l'avvento della chimica moderna, un concetto scientifico la cui validità è data dal possibile uso quantitativo. D'ora in poi, quando si parlerà di elemento si intenderà un'unità di calcolo e riproducibilità utilizzabile negli esperimenti, la materia sarà materia prima nel senso di in-formità cui dare forma assegnandole una destinazione d'uso. Gli alchimisti non parlano mai dell'oro concreto e dello zolfo concreto. L'oggetto non è mai  semplicemente se stesso; è anche segno di altro, ricettacolo di una realtà che trascende il piano in cui esso esiste. Per questo “il chimico che volesse esaminare oggi le opere alchimistiche proverebbe la stessa impressione di quelle di un muratore che volesse trarre informazioni da un testo della massoneria”
     E. S. Taylor, A survey of Greek Alchemy, New York 1949, p.110.. La totale irriducibilità della chimica all’alchimia è evidenziata dal distacco che si stabilisce tra tecnologia e rivelazione, ma proprio da tale distacco si può cercare di comprendere il valore di una non-scienza capace di illuminare il senso della ricerca scientifica.
    Che Boyle non potesse capire l’importanza peculiare dell’alchimia risulta chiaro dalle aspettative che poneva in essa e dalle conseguenti delusioni. Boyle avrebbe voluto un’alchimia sperimentale, delle relazioni scritte in modo chiaro e univoco, senza appelli al segreto e all’esoterismo. Egli auspicava un’alchimia rinnovata e, proprio per differenziarsi dalla vecchia alchimia, preferì chiamarsi “chimico”. Il chimico nel suo nascere è essenzialmente un buon alchimista. Ma Boyle, rifiutando il carattere esoterico e iniziatico dell’alchimia, rinunciava all’alchimia stessa come disciplina spirituale; i suoi successi scientifici in effetti sono da riscontrare non tanto nei risultati sperimentali, quanto nel nuovo carattere di pubblicità conferito alla scienza.
    Prima di Boyle, ancora fino alla iatrochimica, la chimica e, da questa, la medicina non poteva interessarsi solo del corpo dell'uomo; la teoria della corrispondenza fra microcosmo e macrocosmo risale direttamente alla creazione divina. Dio ha creato le cose nella loro materia prima e non nella materia ultima: il mondo è un continuo processo chimico di perfezionamento della natura. Gli elementi paracelsiani sono archetipi nascosti nelle cose che conferiscono caratteristiche e qualità.
    Solo con il nuovo concetto di elemento, che sintetizza il dualismo aristotelico-platonico e la fedeltà ai fatti, si giunge ad una chiara svolta, che, pur arretrando di fronte a problemi di volta in volta più complessi, non muterà più il senso della ricerca scientifica. Eppure l'alchimia, come scienza d'opposizione, trova un ultimo apparente successo parziale proprio nel tempo di Boyle. La cosiddetta teoria del flogisto consente infatti di trovare ancora una commistione di elementi indimostrati e rigorosità sperimentale che dà vita ad un illusorio colpo di coda della scienza mistica.
    La teoria del flogisto nasce come tentativo per spiegare uno strano fenomeno che aveva anche negative ripercussioni economiche per le imprese metallurgiche: si notava che con la combustione del legno ridotto in cenere il peso diminuiva, invece nella calcinazione dei metalli, stranamente il peso aumentava. Si possono distinguere due differenti direzioni nello sviluppo delle indagini sul cambiamento di peso delle sostanze nella loro combustione. I rappresentanti del primo indirizzo seguivano la dottrina di Aristotele sul fuoco, secondo la quale la combustione era una decomposizione. L'altro indirizzo, era quello per cui la combustione si caratterizzava in virtù dell'intervento dell'aria; e veniva pertanto considerato un processo di combinazione. Nel diciassettesimo secolo, i chimici seguirono la prima teoria quella del principio della combustibilità.  La vecchia ma ancora potente autorità di Aristotele aveva ancora la meglio. Secondo l'insegnamento aristotelico, tutte le cose si muovono, ma alcune di esse tendono con il loro movimento verso l'alto (il fuoco)  ed altre verso il basso (tutte le rimanenti).  Tutte le cose possiedono un peso ad eccezione del fuoco. L'idea aristotelica eserciterà una grande influenza sul sorgere della teoria del flogisto, nella quale l'idea aristotelica, in forma modificata, ebbe una parte sostanziale. Ciò si spiega soprattutto con il fatto che l'idea dell'esistenza di corpi che spontaneamente si dirigono verso l'alto non era di per sé assurda, ma rispondeva ad un primo esame dei fatti osservati. Ciò avviene per due motivi: primo perché  al tempo la composizione dell'aria era ignota, secondo perché era contrario all'esperienza stessa credere che l'aria, invisibile e leggera potesse alterare il peso di un metallo sottoposto a calcinazione. Soltanto con Lavoisier si arriverà a comprendere che non è il flogisto ad incidere sulla lavorazione di un metallo, ma l'aria la quale funge sia da solvente che da reagente. Tuttavia, nonostante Lavoisier si adopererà per uno smantellamento della teoria del flogisto, ad essa riconoscerà due meriti:  aver riconosciuto definitivamente che i metalli sono sostanze combustibili; che con la teoria flogistica  si stabilì che in determinate condizioni la capacità di combustione poteva essere trasferita da una sostanza ad un'altra. Il limite della teoria di Stahl era dato dal fatto che essa era in grado di spiegare i fatti noti, ma non era in grado di spiegare e prevedere nuovi fatti. Ciò che più importa e però che il flogisto fu definito come uno spirito presente in ogni corpo, una sorta di impetus, che, in maniera maggiore o minore, a seconda della combustibilità del corpo stesso, con un determinato procedimento poteva essere espulso dal corpo (calcinazione), oppure reinserito nel corpo calcinato grazie all'aggiunta di un nuovo materiale contenente per l'appunto flogisto. Questo veniva a configurarsi come energia negativa, sostanzialmente un inspiegabile elemento inafferabile, che non poteva essere isolato. Come gli  alchimisti, i sostenitori della teoria del flogisto asserivano indirettamente l'esistenza di uno spirito volatile che entra ed esce dalla materia, determinandone il peso e dunque anche il mutamento. Nonostante la somiglianza e l'innegabile matrice magico-alchemica riscontrabile nella sua genesi, il flogisto non ha nulla a che fare con gli arcana alchemici. Il flogisto è sì uno spirito inafferrabile, ma presente in un mondo pienamente intriso di metafisica. Esso non ha infatti alcun tipo di rapporto con la natura dell'uomo o con la sua sorte. E' esclusivamente un quid posto come unità concettuale per favorire la metodologia sperimentale e la risoluzioni di problemi pratici, o, per meglio dire, tecnici..
    Ciò mostra come l'avvento del metodo scientifico, pur essendo certamente la crux che segna il confine tra vecchia e nuova scienza, non sia un evento sviluppatosi per caso in un mondo ancora intriso di magia.  Il nuovo approccio alla scienza ha profonde radici nel precedente pensiero occidentale. Eppure Bacone imputa a Platone, il padre del pensiero occidentale, l'abbandono delle ricerche di filosofia naturale, ispirandosi ai presocratici per l'attenzione riservata alle ricerche fisiche e per aver “sottoposto la mente alle cose”.
    Ma proprio la distinzione tra mondo sensibile e mondo soprasensibile ha permesso di pensare una scienza rivolta esclusivamente verso le cose del mondo; in una physis nella quale hanno dimora anche gli dèi non è possibile immaginare una separazione tra fisica e metafisica, e quindi tra verità sperimentali e verità religiose.
    Forse proprio la maggiore attenzione rivolta dai filosofi platonici e post-platonici alle realtà immutabili ha permesso alla scienza di ritagliarsi uno spazio autonomo. La complicità di scienza e tecnica nasce esattamente dal bisogno di fare della parte della realtà ritenuta più vile, in quanto ontologicamente meno positiva, un mondo di pieno dominio umano. La possibilità di decidere della creazione delle cose e del loro annullamento fa della scienza una tecnica d'“uso” della natura, che può progressivamente aspirare a confinare con il mondo del vero essere, per potenza e autonomia.
    Elemento fisico come concetto scientifico, rigorosità metodologica e fedeltà non tanto ai fatti quanto alla loro interpretazione razionale: sono questi i capisaldi della nuova scienza. Sono questi veri mutamenti di rotta che formano una realtà concettuale nuova che lascia spazio alla rivoluzione tecnica della scienza moderna. La possibilità di creare “cose che non sono” offre altresì alla scienza un'alternativa sul proprio ruolo: legare la ricerca ad un ritrovato senso della physis o smarrire lo scopo stesso che ha permesso la genesi della ricerca umana.   













    PARTE SECONDA
    Dall’alchimia alla scienza




    § 2.1 ALCHIMIA E FISICA MODERNA

    La fisica moderna
     Per un panorama completo sulla storia e i concetti della fisica moderna si vedano: Le scienza fisiche, a cura di G. Allard, Lucarini, Roma 1983; Storia della scienza contemporanea, a cura di R.Taton, Lucarini, Roma 1983; G. Tagliaferri, Storia della fisica quantistica, Angeli, Milano 1985; R. Maiocchi, Storia della scienza in Occidente, La Nuova Italia, Scandicci 1995 e inoltre cfr. E. Cassirer, Sostanza e funzione: sulla teoria della relatività di Einstein, La Nuova Italia, Firenze 1973; G. Toraldo di Francia, Il problema del cosmo, Istituto dell’enciclopedia Italiana, Roma 1982; F. Selleri; P. Nutricati, Oltre i paradossi della fisica moderna, Dedalo, Bari 1998. ha avuto una profonda influenza su quasi tutti gli aspetti della società umana. Essa è diventata la base della scienza della natura e questa, insieme con la scienza applicata, ha mutato in modo sostanziale le condizioni di vita sul nostro pianeta, sia in senso positivo, sia in senso negativo. Tuttavia l’influenza della fisica moderna va al di là della tecnologia: si estende all’ambito del pensiero e della cultura, dove ha determinato una profonda revisione della concezione che l’uomo ha dell’universo e del proprio rapporto con esso.
    Nel Novecento, l’esplorazione del mondo atomico e subatomico ha rivelato un inaspettato limite delle concezioni classiche e ha reso necessaria una revisione radicale di molti dei nostri concetti fondamentali. Per esempio, il concetto di materia nella fisica subatomica è completamente diverso dall’idea tradizionale di sostanza materiale della fisica classica. La stessa cosa vale per concetti quali spazio e tempo, o causa ed effetto.
    La fisica ci porta oggi a una concezione del mondo più vicina a quella degli alchimisti di quanto non si creda. La scienza occidentale ha in effetti origini mistiche, nei primi filosofi greci, e da esse ha cercato di emanciparsi lungo tutto l’arco di sviluppo dell’idea tecnica di scienza. La concezione monistica e organicistica della scuola di Mileto era molto vicina a quella delle antiche filosofie indiana e cinese e le corrispondenze con il pensiero orientale sono ancora più forti nella filosofia di Eraclito. Eraclito credeva che il mondo fosse in perenne mutamento, in eterno divenire. Per lui, la staticità dell’essere era pura illusione; riteneva che tutte le trasformazioni nel mondo nascessero dall’azione reciproca dinamica e ciclica dei contrari e pensava ogni coppia di contrari come unità. A quest’unità, che contiene e trascende tutte le forze opposte, dava il nome di Logos.
    La rottura di questa unità ebbe luogo con la nascita della metafisica, dando inizio ad una tendenza di pensiero che alla fine condusse alla separazione tra spirito e materia.
    E’ affascinante osservare come la scienza del ventesimo secolo, nata dalla separazione cartesiana e dalla concezione meccanicistica del mondo, superi oggi questa frammentazione e ritorni nuovamente all’idea di unità espressa dalla fase genetica della filosofia.
    Al contrario della concezione meccanicistica occidentale, la concezione alchemica è di tipo organicistico. Per l’alchimista materia e spirito sono interconnessi. Poiché il movimento e il mutamento sono proprietà essenziali delle cose, le forze che causano il movimento non sono esterne agli oggetti, ma sono una proprietà intrinseca della materia; per questo motivo esse trascendono il carattere di passività che parevano aver assunto nella fisica classica.
    Nella meccanica di Newton, tutti gli eventi fisici sono ridotti al moto di punti materiali nello spazio, moto causato dalla loro reciproca attrazione, cioè dalla forza di gravità. Le equazioni di Newton relative al moto dei corpi sono la base della meccanica classica; esse furono considerate leggi immutabili secondo le quali si muovono i punti materiali e si pensò quindi che potessero spiegare tutti i mutamenti osservati nel mondo fisico.La concezione meccanicistica della natura è quindi in stretto rapporto con un determinismo rigoroso. La gigantesca macchina cosmica era considerata completamente causale e determinata. Tutto ciò che avveniva aveva una causa definita e dava luogo a un effetto definito e, in linea di principio, si sarebbe potuto prevedere con assoluta certezza il futuro di una parte qualsiasi del sistema se si fosse conosciuto in un qualsiasi istante il particolare stato in tutti i suoi particolari. Questa convinzione trovò la sua espressione più chiara nelle famose parole del matematico francese Pierre-Simon de Laplace: “Un’intelligenza che, ad un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, (…) abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi”
     P.-S. de Laplace, Opere, Utet, Torino 1967, p.243..
    La base filosofica di questo determinismo rigoroso era la fondamentale divisione tra l’Io e il mondo introdotta da Cartesio. Come conseguenza di questa divisione, si riteneva che il mondo potesse essere descritto oggettivamente, cioè senza tener mai conto dell’osservatore, e tale descrizione oggettiva del mondo divenne l’ideale di tutta la scienza.
    Meno di cent’anni dopo fu scoperta una nuova realtà fisica che rese evidenti i limiti del modello newtoniano e mostrò che nessuno dei suoi aspetti aveva validità assoluta. Questa presa di coscienza non si verificò improvvisamente, ma fu avviata da avvenimenti che erano già iniziati nel diciannovesimo secolo e che prepararono la strada alle rivoluzioni scientifiche del nostro tempo. Il primo di questi avvenimenti fu la scoperta e lo studio dei fenomeni elettrici e magnetici, che non potevano essere descritti adeguatamente dal modello meccanicistico, e comportavano l’esistenza di un nuovo tipo di forza: il campo. Il concetto di forza veniva sostituito da quello, molto più sottile, di campo, il quale aveva una sua propria realtà e poteva essere studiato senza alcun riferimento ai corpi materiali. Il punto più alto raggiunto da questa teoria, chiamata elettrodinamica, fu la comprensione del fatto che la luce non è altro che un campo elettromagnetico rapidamente alternante e che si sposta nello spazio sotto forma di onda.
    Nonostante questi mutamenti che aprivano nuovi orizzonti, la meccanica newtoniana mantenne inizialmente la sua posizione come fondamento di tutta la fisica. Lo stesso Maxwell cercò di dare una spiegazione meccanicistica ai propri risultati, interpretando i campi come stati di tensione meccanica in un mezzo molto leggero, chiamato etere, che riempiva tutto lo spazio, e le onde elettromagnetiche come onde elastiche di questo etere.
    I primi tre decenni del nostro secolo cambiarono radicalmente l’intera situazione della fisica. Due sviluppi verificatisi separatamente – quello della teoria della relatività e quello della fisica atomica – infransero tutti i più importanti elementi della concezione newtoniana del mondo: la nozione di spazio e di tempo assoluti e quello di particelle solide elementari. Nella teoria della relatività vengono abbandonati sia il concetto newtoniano di spazio assoluto inteso come scenario immutabile dei fenomeni fisici, sia il concetto di tempo assoluto. Lo spazio e il tempo diventano soltanto elementi del linguaggio che un particolare osservatore usa per descrivere i fenomeni dal proprio punto di vista. La principale conseguenza di tale trasformazione è di aver capito che la massa non è altro che una forma d’energia.
    La concezione meccanicistica del mondo della fisica classica era basata sulla nozione di corpi solidi che si muovono nello spazio vuoto. Questa nozione è ancora valida nel campo della nostra esperienza quotidiana, dove la fisica classica continua ad essere una teoria utile. Sia il concetto di spazio vuoto sia quello di corpi materiali solidi sono profondamente radicati nel nostro modo di pensare, eppure la fisica moderna ci costringe a immaginare una realtà fisica nella quale essi non sono più validi.  Non ha più senso parlare di “spazio vuoto” in astrofisica e in cosmologia, le scienze dell’universo su larga scala, mentre il concetto di corpo solido è stato spazzato via dalla fisica atomica, la fisica dell’infinitamente piccolo.
    La nota contraddizione apparente tra rappresentazione corpuscolare e rappresentazione ondulatoria è stata risolta dalla meccanica quantistica attraverso l’assunzione di un postulato fondamentale: per quanto ci si addentri nella materia, la natura non ci rivela la presenza di nessun “mattone fondamentale” isolato, ma ci appare piuttosto come una complessa rete di relazioni tra le varie parti del tutto.
    La fisica del ventesimo secolo è stata caratterizzata dalla capacità sempre crescente di penetrazione nel mondo delle dimensioni submicroscopiche, e si è spinta fino al livello degli atomi, dei nuclei e dei loro costituenti. Questa esplorazione è stata motivata da una domanda basilare che ha occupato e stimolato il pensiero umano in tutte le epoche: di che cosa è fatta la materia?
    Prima della fisica relativistica delle particelle, i costituenti della materia erano sempre stati considerati o come unità elementari indistruttibili e immutabili, oppure come oggetti composti che potevano essere suddivisi nelle loro parti costituenti; e la domanda fondamentale che ci si poneva era se fosse possibile continuare a dividere la materia, o se infine si sarebbe giunti alle minime unità indivisibili. Fin dagli inizi della filosofia naturale, l’uomo ha riflettuto su questo problema, cercando di trovare il “materiale” fondamentale di cui è fatta tutta quanta la materia; ma solo nel nostro secolo è stato possibile cercare una risposta effettuando degli esperimenti. Con l’aiuto di una tecnologia estremamente raffinata, i fisici furono in grado di esplorare dapprima la struttura degli atomi, scoprendo che sono formati da nucleo ed elettroni, e quindi la struttura dei nuclei atomici, giungendo ai nucleoni. Negli ultimi decenni, i fisici hanno compiuto un ulteriore passo in avanti cominciando ad esplorare la struttura dei nucleoni – i costituenti del nucleo atomico – che, di nuovo, non sembrano essere le particelle elementari definitive, ma risultano composte da altre entità.
     La teoria della relatività ha avuto una profonda influenza sulla nostra idea di materia, obbligandoci a modificare in modo sostanziale il concetto di particella. Nella fisica classica, la massa era sempre stata associata a una sostanza materiale indistruttibile, a una qualche “cosa” della quale si pensava fossero fatte tutte le cose. La fisica moderna ha invece dato una risposta del tutto inaspettata al problema: l’unico modo per dividere ulteriormente le particelle subatomiche è quello di farle interagire tra loro in processi d’urto ad alta energia. Così facendo possiamo dividere sempre più la materia, ma non otteniamo mai pezzi più piccoli, perché creiamo le particelle a spese dell’energia coinvolta nel processo. Le particelle subatomiche sono quindi distruttibili e indistruttibili allo stesso tempo. La teoria della relatività ha mostrato che la massa non ha nulla a che fare con una qualsiasi sostanza, ma è una forma d’energia. Quest’ultima poi è una quantità dinamica associata ad attività o a processi. Il fatto che la massa di una particella sia equivalente a una certa quantità di energia significa che la particella non può essere considerata un oggetto statico, ma va intesa come una configurazione dinamica, un processo coinvolgente quell’energia che si manifesta come massa della particella stessa.
    Questo stato di cose è destinato a rimanere paradossale fino a quando continuiamo ad assumere un punto di vista statico secondo cui gli “oggetti” sono formati da “mattoni elementari”. Solo quando si assume un punto di vista dinamico, relativistico, il paradosso scompare. Le particelle sono viste allora come configurazioni dinamiche, o processi, che coinvolgono una certa quantità d’energia, la quale si presenta a noi come massa. Queste figure dinamiche, o “pacchetti d’energia”, formano le strutture stabili di tipo nucleare, atomico e molecolare che costituiscono la materia e le conferiscono il suo ben noto aspetto solido, macroscopico. Ciò porta a credere che essa sia costituita da qualche sostanza materiale. A livello macroscopico, questa nozione di sostanza è un’approssimazione utile, ma a livello atomico essa non ha più senso. Gli atomi sono composti da particelle e queste particelle non sono fatte di un qualche materiale. Quando le osserviamo, non vediamo mai nessuna sostanza, ma solo forme dinamiche che si trasformano incessantemente l’una nell’altra. La meccanica quantistica ha permesso di capire che queste particelle non sono granelli isolati di materia, ma distribuzioni di probabilità, interconnessioni in una inestricabile rete cosmica.
    Nella teoria di Einstein,d’altra parte, la materia non può essere separata dal suo campo di gravità, e il campo di gravità non può essere separato dallo spazio curvo. Materia e spazio sono pertanto visti come parti inseparabili  e interdipendenti di un tutto unico.
    Gli oggetti materiali non solo determinano la struttura dello spazio circostante, ma a loro volta sono influenzati in modo sostanziale dall’ambiente. Secondo il fisico e filosofo Ernst Mach, l’inerzia di un oggetto materiale – la resistenza che oppone ad essere accellerato – non è una proprietà intrinseca della materia, ma una misura della sua interazione con tutto il resto dell’universo. Nella concezione di Mach, la materia possiede inerzia solo perché esiste altra materia nell’universo. Questa concezione dell’inerzia, nota come principio di Mach, ebbe una profonda influenza su Albert Einstein e costituì la motivazione iniziale che lo stimolò a costruire la teoria generale della relatività. La fisica moderna ci mostra dunque – e a livello macroscopico – che gli oggetti materiali non sono entità distinte, ma sono legati in maniera inseparabile al loro ambiente; e che le loro proprietà possono essere comprese solo nei termini della loro interazione con il resto del mondo.
    La teoria della relatività ha reso vive, per così dire, le particelle rivelandone il carattere intrinsecamente dinamico e facendo vedere che l’attività della materia è la vera essenza del suo essere. L’esistenza della materia e la sua attività non possono essere separate ed entrambe devono essere considerate alla luce dell’interrelazione con l’ambiente e con l’osservatore.
    Secondo il principio di Mach, questa interrelazione si estende all’universo in generale, alle stelle e alle galassie lontane. L’unità fondamentale del cosmo si manifesta, perciò, non solo nel mondo dell’infinitamente piccolo, ma anche nel mondo dell’infinitamente grande; un fatto che è sempre più accettato nell’astrofisica e nella cosmologia moderne. Per usare le parole dell’astronomo Fred Hoyle, “Gli odierni progressi della cosmologia indicano piuttosto insistentemente che le condizioni della nostra esistenza quotidiana non potrebbero sussistere se non fosse per le parti più remote dell’Universo (…). La nostra esperienza quotidiana, fino ai minimi particolari, sembra essere così strettamente integrata negli aspetti su vasta scala dell’Universo, che è assolutamente impossibile pensare a una separazione delle due cose”
     F. Hoyle, Frontiers of Astronomy, Harper, New York 1955, p.304 [tr.it. Frontiere dell’astronomia, Bompiani, Milano 1958, p.401]..
    Gli alchimisti avevano già teorizzato un universo siffatto, seppur giungendovi per via esclusivamente intuitiva.
    I rapporti fra la Terra, il sistema solare e le stelle erano considerate molto imortanti dall’alchimia. Di fatto, fino al xvii secolo, la maggioranza delle persone credeva che i corpi celesti fossero animati e in possesso di qualità particolari, che avevano la capacità di influire sulla vita della Terra. Eppure la considerazione che gli alchimisti avevano delle relazioni fra pianeti e uomo andava ben oltre quella che normalmente era ed è diffusa come semplice astrologia.
    Ogni metallo corrispondeva per gli alchimisti ad un particolare pianeta  e, studiando i moti di quel pianeta si poteva dedurre il livello di “crescita” del metallo. Dal momento che si diceva che la natura operasse per tramite dei pianeti, l’alchimista, che cercava di usare la propria arte per accellerare e perfezionare i processi naturali, doveva necessariamente capire e utilizzare i principi degli influssi astrali. Molti alchimisti, perciò, erano astrologi esperti; era una pratica comune scegliere il momento astrologicamente più propizio per cominciare la Grande Opera, e in molti testi alchemici spesso i metalli sono chiamati con i nomi dei pianeti corrispondenti.
    L’alchimia “usa” dunque l’astrologia per correlare i moti astrali all’unità naturale di cui l’uomo e la materia sono solo componenti che possono dinamicamente influire tra loro.  
    Per l’alchimia non esiste in effetti materia “morta”; tutta la sostanza è vitale e dinamica. Gli operatori alchemici certamente si rifacevano alla dottrina aristotelica degli elementi, pur mutandone i contenuti e la forma, ma essi ci tenevano a precisare che i veri acqua, aria, fuoco e terra non potevano essere le entità che conosciamo noi. Gli elementi “comuni” erano dunque le qualità tangibili e visibili, il cui carattere era più prossimo agli elementi “puri”. Questi elementi puri si trovavano solo nel nucleo della materia, ed erano considerati per lo più come forze, o agenti, piuttosto che come sostanze effettivamente rintracciabili. Questi elementi portavano a compimento il lavoro della Natura con il cambiare continuamente la propria combinazione per poter dare vita a tutte le diverse sostanze che esistono sulla terra. Se la materia giungeva a cambiare il proprio stato, come succedeva nell’alambicco dell’alchimista, questo significava dunque che si era verificata un’alterazione, una nuova combinazione degli elementi che formano la materia. Un mutamento nello stato degli elementi non poteva avvenire semplicemente sotto l’azione di forze fisiche, cioè, per fare un esempio, tramite taglio o polverizzazione. Il mutamento doveva avvenire in genere mediante l’applicazione dell’azione di un altro agente elementare, specialmente quello dell’acqua o del fuoco.
    Il fuoco e l’acqua “comune” venivano così a giocare un ruolo di spicco nell’alchimia, ma molto spesso gli alchimisti cercarono di produrre le forme “pure”, che essi chiamavano con nomi del tipo “il nostro fuoco” e “la dolce acqua”: Queste forme andavano soggette a lunghi e laboriosi stadi preparatori e venivano utilizzate per scopi quali la distruzione della forma originaria della Materia Prima per poter liberare gli elementi in essa contenuti, o per nutrire il materiale posto nell’alambicco, una volta che avesse già subito la trasformazione radicale.
    Si credeva che l’oro contenesse tutti e quattro gli elementi in perfetto equilibrio e si diceva che la natura operasse un processo costante di perfezionamento di quanto era ancora ad uno stato grezzo o corrotto. Ancora una volta Aristotele deve essere considerato il responsabile della teoria secondo la quale la Natura faceva “crescere” l’oro nella terra e che, per ovvia conseguenza, tutti i metalli si sarebbero dovuti sviluppare fino a diventare oro. I metalli stessi nascevano da semi, di cui si potrebbe riconoscere l’originaria natura metallica. Talvolta la ricerca alchimistica della Materia Prima fu descritta come la ricerca del giusto seme metallico, che gli alchimisti potevano curare con attenzione e far sviluppare fino a condurlo allo stato di oro perfetto. La visione che l’alchimista aveva della terra era  dunque quella di un organismo in stato perenne e costante di cambiamento e di crescita. Il suo compito era proprio quello di portare l’energia, l’“anima” della materia vile, a percorrere quel cammino che dalla morte della sostanza, il nigredo, doveva condurre verso il compimento della propria potenzialità, la “resurrezione” della materia come forza pura.
    Nella fisica moderna, come nell’alchimia, l’universo appare quindi come un tutto dinamico, inseparabile, che comprende sempre l’osservatore in modo essenziale. Nell’esperienza che se ne può avere i concetti tradizionali di spazio e di tempo, di oggetti isolati, e di causa ed effetto, perdono il loro significato.
    La caratteristica più importante della concezione del mondo alchemica
     E’ evidente che nel caso dell’alchimia si può parlare, in termini generici, di concezione del mondo, non di apparato epistemologico, dato che l’esperienza alchemica è del tutto diversa ed irriducibile da quella propriamente tecnico-scientifica. Le analogie sono quindi da considerare alla luce dei differenti campi d’azione. - si potrebbe dire la sua essenza – è la consapevolezza dell’unità e della mutua interrelazione di tutte le cose e di tutti gli eventi, la constatazione che tutti i fenomeni nel mondo sono manifestazioni di una fondamentale organicità mistica. In essa, ogni evento ha valore in relazione all’osservatore umano e alla sua coscienza. Allo stesso modo, a livello atomico, gli “oggetti” possono essere compresi solo in termini di interazione tra i processi di preparazione e di misurazione. L’ultimo anello di questa catena di processi si trova sempre nella coscienza dell’osservatore. “La scienza naturale” dice Heisenberg “non è semplicemente una descrizione e una spiegazione della natura; essa è parte dell’azione reciproca tra noi e la natura”
     W. Heisenberg, Fisica e filosofia, Il Saggiatore, Milano 1961, p.85..
      La caratteristica decisiva della fisica atomica è che, come negli esperimenti alchemici, l’osservatore umano non è necessario solo per osservare le proprietà di un oggetto, ma è necessario anche per determinare queste proprietà: “ciò che osserviamo non è la natura in se stessa ma la natura esposta ai nostri metodi d’indagine”
     Ivi, p. 63.. La conoscenza, sia per l’alchimia che per la fisica moderna, non può mai essere raggiunta con la mera osservazione, ma unicamente con la totale partecipazione “intenzionale” di tutto il proprio essere. Se la partecipazione degli alchimisti era totale nel senso di un coinvolgimento non solo intellettuale, ma anche e soprattutto sentimentale rispetto alla materia, la partecipazione dello scienziato moderno deve essere totale a partire dal coinvolgimento del proprio ruolo di agente nell’ambito dell’esperimento. Il fisico contemporaneo non può più lasciare che la “cosa” si dia e si offra come pura datità, ma deve essere conscio del proprio compito di “razionalizzatore” di ciò che si presenta come relazione caotica di osservatore ed osservato: “La réalité maxima est au bout del la connaissance, non point à l’origine de la connaissance”
     G. Bachelard, L’expérience de l’espace dans la physique contemporaine, Alcan, Paris 1937, p. 22-23..
    In ogni caso la scienza non può più essere fondata su una distinzione netta tra oggetto e soggetto, ma deve contemplare l’unità di essi alla luce di una nuova distinzione, meno “realistica”, ma più reale: quella tra un operatore tecnico capace di ergersi al di sopra della propria individualità personale e una materia composta di numeri e formule anziché di sostrato inerte.




































    § 2. 2 Alchimia ed epistemologia della tecnica: dal mito alla tecnologia


    La filosofia ha cercato innumerevoli volte un confronto con la tecnica, essendo questa non solo una modalità ormai peculiare della vita contemporanea, ma anche e soprattutto un punto di vista ideale per cercare di comprendere il senso del rapporto tra uomo e mondo. Ciò nonostante in pochi casi essa è riuscita a porsi oltre la prospettiva di una facile esaltazione o di una ancor più naturale esorcizzazione. Gli evidenti progressi tecnici e tecnologici della scienza contemporanea  non potevano non creare prima l’orgoglio, poi il mito, infine l’illusione di una infallibile onnipotenza della visione “tecnica” della realtà. La possibilità di controllare o di dominare il campo della presunta “oggettività” fisica  è stata passibile di un’interpretazione demoniaca come di una illimitatamente ottimistica.
     Fin dalle origini il cammino dell’uomo, nella scienza e nella conoscenza, è stato segnato dall’innato desiderio di voler spiegare la realtà circostante. Questa insaziabile sete di sapere, legata allo stesso tempo alle esigenze del vivere quotidiano,  sono stati i motivi per i quali l’uomo- essere imperfetto per natura –  ha dispiegato e attuato mezzi per la sua migliore evoluzione. Uno di questi mezzi, una di queste “tecniche”, ( la prima in assoluto ) fu il mito.
    Sin dalla nascita di una sapienza “tecnica” del semplice uso di manufatti, nascita esemplarmente espresso nel mito di Prometeo, l’uomo ha tentato di appropriarsi e di assolutizzare il proprio logos, la ragione umana, sino ad attribuirsi il compito di informare la realtà attraverso una ri-produzione dell’intelligenza umana, che, al contrario, proprio perché umana, non è solo costituita di processi logici, tecnicamente ricostruibili, ma è anche capacità di comprendere, di intendere, di sentire e di intuire e soprattutto di crearsi come altro da sé oltre che di sé.
    E’ nel mito che troviamo la prima forma di tecnica attraverso la quale spiegare e predire la realtà. Oggi tecnica e mito sembrano costituire per l’uomo un vero e proprio attentato alla sua libertà: la tecnica in quanto soffocherebbe la sfera creativa dell’uomo, il mito, in quanto dell’uomo inibirebbe la dimensione razionale. Così che l’uno e l’altro sarebbero accomunati da una irriducibile sfida che lanciano contro l’umano, e, nello stesso tempo, se messi in rapporto- sia pure per via antitetica e postulatoria- si affiancherebbero, poiché, nel denunciare l’arida operatività della tecnica, lo si fa in nome della feconda esemplarità del mito, e nel denunciare l’astrattezza e l’irrazionalità del mito, lo si fa in nome della funzionalità razionale e concreta della tecnica. Il che accade soprattutto quando la tecnica è chiamata in causa a difendere i diritti dell’homo faber – perenne incarnazione dell’uomo nuovo proiettato nel futuro- dalla minaccia d’una antistorica caduta nel passato; e il mito è a sua volta tirato in ballo per difendere i diritti dell’homo sapiens- perenne incarnazione dell’uomo antico, ancorato al passato- minacciato da una altrettanto antistorica fuga nel futuro. A ben vedere, queste due dimensioni umane sarebbero capaci l’una di escludere l’altra – almeno questa è la considerazione che ne dà gran parte della scienza contemporanea- invece, non solo la tecnica  non elimina il mito, ma ne è la continuazione e l’incarnazione storica e post-simbolica. Vi è dunque un aspetto comune che caratterizza tecnica e mito, e tale aspetto può essere trovato e prospettato in quella filosofia dei “nascimenti” che trova nel Vico della scienza nuova il suo più autorevole e autentico teorico.
    Nella visione vichiana, la connessione tra tecnica e mito è vista, positivamente, come il prodotto di quella tecnica originaria e naturale quale è l’attitudine poetica ( “ sommo divino artifizio della poietica facultà” )  con cui il primitivo, ingegnosamente “non intelligendo fit omnia”. Ora se l’artifizio è l’esercizio di una tecnica – sì che l’artefatto è propriamente ciò che non esiste in natura ma è prodotto appunto come arte, è cioè il frutto di una téchne-, la  tecnica di cui si avvale l’uomo per produrre i suoi primi artefatti è l’ingegno, e i primi artefatti dell’ingegno sono i miti.  E infatti, secondo Vico, l’ingegno manifesta un aspetto tecnico e industrioso essendo la facoltà del facere, e anzi, dello scire attraverso il facere, e quindi  la facoltà che distingue l’uomo tanto dalla bestia quanto da Dio. Vico gli attribuisce la capacità di dar vita ai mechanica e agli artificia, ciò che è propriamente quel che fa dell’uomo un “artificiorum deus”. Al tempo stesso, l’ingegno è strettamente connesso alla fantasia, come si evince non solo dal fatto che Vico presenta l’uno e l’altra come due facoltà d’una medesima operazione della mente, qual è la percezione, ma ancor più intrisecamente, in quanto questa connessione culmina nella configurazione della fantasia come “ingegnii oculus”, che è come dire che l’ingegno vede – ossia esercita la propria tecnica, e anzi si esercita come tecnica- tramite la fantasia. Ora, la coessenzialità tra ingegno e fantasia prospettata da Vico mostra che il facere dell’ingegno è anzitutto il creare tecnico-artistico del mito, nel senso che l’ingegno può considerarsi come quella tecnica naturale con cui l’uomo primitivo attua la realtà a lui più congeniale. Ciò significa che, in primo luogo, la peculiarità della tecnica, quando venga incarnata dall’Ars inveniendi dell’ingegno, risiede nel suo essere naturale e originaria, ossia non già prodotta dall’uomo e da altra tecnica, ma costitutiva della natura umana; e in secondo luogo,  che la tecnica si fa mito nell’atto stesso in cui, da mezzo di mera sopravvivenza- quale essa è per l’uomo-bestia errante nella selva- , diventa strumento di creazione del mito. Ed è in questo singolarissimo attestarsi come strumento del mito, che risiede la cifra dell’acquisita umanità della tecnica. E infatti, finchè la tecnica funge da mezzo di mera sopravvivenza, essa è indistinguibile dalla tecnica di cui si serve l’animale per costruirsi un rifugio dalle intemperie, o per cacciare e sopravvivere; e perciò, essa non è in grado di avviare alcuna forma di civiltà, cosi come non ne crea presso gli animali, i quali, capaci di evoluzione naturale, sono incapaci di sviluppo storico. Non a caso, finchè la tecnica – come puro mezzo per fabbricare artefatti – è posta al servizio esclusivo dell’utile, gli uomini continuano a vivere “ in solitudine da fiere bestie”, quando invece essa si pone al servizio del mito– con un atto che è insieme creativo e rivelativo- gli uomini fondano le “nazioni gentili”. E ciò avviene non già perché l’utile venga rinnegato e soppresso, ma in quanto da fine quale era, l’utile diventa mezzo, da causa d’uno sterile vagabondaggio, occasione di incivilimento.
    Certamente l’analisi vichiana del rapporto tra fantasia e tecnica rende conto dell’impossibilità di elidere, all’interno della coscienza umana, uno dei due termini senza modificare anche l’altro; l’uomo non può essere del tutto raziocinante semplicemente perché ha anche altre facoltà oltre alla ragione epistémica. Ciò non toglie che sia possibile e doveroso separare i diversi campi d’azione delle diverse facoltà umane. Per fare questo è necessario ovviamente conoscere la potenza dell’aspetto immaginativo e la sua capacità di influire inconsciamente sulla formulazione di ipotesi o teorie: bisogna dunque delimitare l’ambito del mito da quello della ragione.
    Se la peculiarità della tecnica originaria – per la quale essa si traduce in quella umanissima attività che è la poietica – è l’elemento che lega originariamente tecnica e mito, il mito è, a sua volta, il principio che conferisce alla tecnica una connotazione schiettamente umana, si che le ottuse benchè legittime esigenze di sopravvivenza possono trasformarsi in autentiche occasioni di emancipazione; le necessità e utilità primordiali diventano le due fonti del diritto naturale delle genti e l’uomo, da bestione errante, si fa fabbro del mondo delle nazioni, cioè, non tanto fabbricatore di artefatti, quanto artefice di storia.
    Il mito insomma, può servire ad incarnare la veridicità incoativa di ciò che è primigenio e originario proprio in quanto sorge “necessitate naturae” e non già “ex hominum consilio et arte”, e quindi non in quanto è una intellettualistica e oggettivante rappresentazione allegorica, ma perché costituisce il linguaggio stesso della primitività, il suo stesso “parlar naturale” . Come tale, il mito può considerarsi, non solo come la proiezione dei bisogni primitivi fondamentali e più urgenti, e, dunque come il frutto d’uno schietto antropomorfismo, ma anche come la figurazione di una autentica Weltanschauung, ciò che ne evidenzia non l’unità, ma la coessenzialità.
    La forza del mito è tutta contenuta nel paradosso per il quale il primitivo rende a se stesso credibile l’impossibile, ossia giudica come vero ciò che è pure finzione fantastica. La concezione mitico-alchemica, come quella scientifico-tecnica vedono nella trasformazione della natura il loro più alto e importante fine, e l’una può quindi trovare nell’altra la possibilità di realizzare il proprio progetto. La scienza oggi può realizzare “il vecchio sogno degli alchimisti”
     G. Bachelard, Il materialismo razionale, Dedalo, Bari 1975, pp.10; 127. proprio ed esclusivamente perché può, con mezzi totalmente diversi, “dare realtà all’artificiale”
     C. Vinti, Bachelard: Ragione e realtà nella chimica contemporanea, in Philosophers in the laboratory, Proceedings of the meeting “Riflessioni epistemologiche e metodologiche sulla chimica”, Roma 1-2 Dicembre 1994, Euroma, Modena 1995, p.. e imporre tecnicamente una forma al mondo naturale.
    In Vico, quando, nell’età degli uomini, la riflessione spezza l’identità di finzione e credenza, e conseguentemente, considera il mito come “verosimile”, “oscuro”, e “incredibile”, il mito smarrisce la sua forza ispiratrice, con la conseguenza che la tecnica smarrisce a sua volta la fonte stessa della propria apertura e la regola del proprio esercizio originario. Ciò perché la forza raziocinante è considerata come l’evoluzione della forza immaginativa, e quindi è in grado di rimpiazzarla. Ma è possibile, contro Vico, immaginare una coesistenza capace di salvaguardare l’autonomia di tecnica razionale e tecnica mitica, di ragione e fantasia?
    La realtà, nella scienza moderna, è una realizzazione. L’oggetto è, soprattutto dopo le acquisizioni della meccanica quantistica, un teorema reificato, un calcolo matematico che si fa, poi, “cosa” del mondo e si offre all’esperienza. Invenzione matematica e fatticità tecnica sono i due momenti indisgiungibili della scienza. La matematica è il momento teorico, ma la teoria matematica è già una tecnica di realizzazione, dato che in seguito quella realtà è assunta a vero e proprio dato di fatto.
    Non i filosofi pensatori–rivoluzionari trasformano oggi il mondo, ma gli scienziati e i tecnologi, in un crescendo in cui è oramai possibile raggiungere le sorgenti della vita.  Nell’impresa si confrontano, procedendo talvolta intrecciate, una idea oltranzista della tecnologia – animata dall’empirismo gnoseologico -, ed una più incline alla cautela ed alla riflessione. Nella tecnica l’uomo incontra un elemento con cui compiersi. Fabbricando utensili, ossia diventando tools-making-man, contribuisce a liberarsi dal regno della necessità per accedere a quello della libertà; egli confronta con a se il mondo che prima gli è ostile, poi lo trasforma in qualcosa adatto a lui, in una sua protesi. Inserendosi nella natura, per imitarla, ripararla, correggerla, la tecnica appare come una risposta e una terapia al male di natura che attacca l’uomo. Essa favorisce l’opera di autostrutturazione antropologica mediante cui l’individuo organizza se stesso e l’ambiente, completando la scarsità della dotazione naturale. Con tale impegno collettivo esercitato sin dalle più antiche epoche, si produce un macroanthropos, un uomo in grande ricco di creatività e di risorse, un Prometeo antivedente, capace di risparmiare l’erogazione di energie fisiche e mentali.  Nel processo viene coinvolta la struttura classica dei bisogni umani che premono per una loro più raffinata soddisfazione.
    Se la tecnica ci appare antica quanto l’uomo, una esplicazione dell’essenza umana senza della quale l’uomo difficilmente si sarebbe salvato entro il cosmo, sono palpabili i timori verso la tecnologia: da quello legato all’eccesso di ordine e di controllo sociale attraverso le tecnocrazie, alla recente paura verso i rischi di caos emergenti dalla manipolazione della vita, al disagio per la complessificazione e intellettualizzazione del vivere. Lo sviluppo tecnologico è diventato lo scopo di tutti gli scopi, in quanto si è perduto l’ideale della ricerca , ciò che animava lo spirito scientifico nella sua assoluta purezza. Evidentemente alla tecnica serve un contrappeso capace di caricare su di sé il bisogno umano di “subire” la forza della propria immaginazione e del proprio classificare la realtà in miti e simboli.
    Nell’alchimia il processo immaginativo e quello conoscitivo erano fusi insieme, a determinare una disciplina che per questo è opportuno chiamare “arte”, piuttosto che scienza. Ciò causava una intrinseca impossibilità della ricerca di elevarsi oltre i risultati dell’intuizione mistica e dello sperimentalismo empirico. La nascita della scienza moderna si caratterizza invece proprio per il distacco di esigenze soggettive e di esigenze oggettive di conoscenza. La distruzione degli Idola baconiani non è diverso dalla distruzione del simbolismo alchemico ad opera del metodo sperimentale usato dalla chimica nascente.
    Il mutamento nel rapporto tecnica-mondo-uomo inizia lentamente nell’epoca moderna, per poi diventare sempre più invadente: l’impresa tecnologica si autosostenta, sembrando quasi diventare non una scelta  dell’uomo soggetta a ripensamenti e calibrazioni, ma un destino
     Questa è la visione heideggeriana della tecnica, che tanto ha influito, forse a sproposito, sulla riflessione a proposito del rapporto della filosofia con la scienza.. Questa immagine può parere reale laddove si consideri il mondo tecnico una conseguenza del mondo pre-tecnico; ma ciò sancirebbe la fine nell’uomo di ogni capacità di vivere non tecnicamente, contrastando l’evidenza di un bagaglio emotivo composto di “rêve”
     Il termine è chiaramente bachelardiano ed esprime la sopravvivenza ineliminabile di impulsi non raziocinanti nell’uomo. Questi sono proprio i segni che il “destino” demonico della tecnica può essere in qualche modo contrastato o aggirato. che si manifesta spesso anche nel suo essere ostacolo alla ricerca scientifica.  
    Nella scelta di perseguire il binomio scienza-tecnica pare spesso soggiacente la scelta di lasciare ai margini conoscenze di altro genere.  Un errore enorme, quello di semplificare con  scienza e tecnologia tutto l’ambito umano, in quanto la filosofia “umana” ha bisogno della scienza  come la scienza ha bisogno della tecnologia; l’una per uscire da un mondo totalmente inanimato, in un mondo in cui l’essere è dimenticato; l’altra per poter acquisire di nuovo il ruolo da tempo perso di coordinatrice del sapere.
     Tre grandi eventi, tra loro diversi, hanno influito in maniera decisiva sullo sviluppo della tecnica nel passaggio dalla tarda antichità al medioevo e poi alla modernità: l’avvento del cristianesimo, la nascita delle scienze della natura e della vita, l’introduzione e l’immenso svolgimento della produzione capitalistica. Se il secondo e il terzo sono una rilevazione scontata, l’impatto del primo si collega al dettato genesiaco di sottomettere la terra, e più precisamente di eliminare  l’economia schiavistica, dove il servo veniva inteso nella antichità come mero strumento animato, ricercando forze produttive alternative. Ma perché questi eventi si dispiegassero, occorreva un mutamento nell’orientazione del desiderio umano, nel suo moto verso i fini, quasi una mutazione antropologica. Fanno parte di questo cambio la più esplicita ricerca dell’utile, la critica e l’abbandono dell’atteggiamento contemplativo, l’indifferenza verso l’invisibile, la sfiducia verso forme di conoscenza lontane da quella empirico-scientifica, il declino di interesse vitale verso la religione trascendente via via rimpiazzata dalla religione del lavoro e della tecnica.
    Con il  Rinascimento  inizia l’esplorazione dapprima esitante e poi più decisa delle possibilità tecniche, nutrita dalle scoperte scientifiche e dal nuovo orientamento dell’uomo. Si trattò in senso proprio di una rivoluzione spirituale, che originò in un ristretto gruppo di persone, capaci di interpretare e giustificare con motivazioni accessibili il mutamento in corso. Uno dei maggiori araldi del nuovo indirizzo si deve riconoscere in Francesco  Bacone: scienziato alquanto modesto, che fornì un eccezionale contributo all’imporsi della nuova visione scientifica e della relativa visione del mondo. Pochi anni dopo sarà di rilievo la figura di Cartesio
    . L’innalzamento  al massimo grado della scienza e della tecnica – nelle figure di Cartesio e di Bacone -, è anche però accompagnato da una – se pur sottile – vena di pessimismo: la tecnica ripara il male e insieme lo compie. Infatti , se la tecnica per lungo tempo ha aiutato a risolvere i problemi, è ora diventata essa stessa problema, una filosofia della tecnica mirante a venire in chiaro sulle sue promesse e contraddizioni è necessaria, perché la filosofia è una espressione, ma non unica,  della cultura e la sua possibilità di produrre mutamenti nella condizione attuale del mondo, per quanto limitata, è ancora auspicabile.
     In effetti la questione principale non è tanto se debba esservi una filosofia della tecnica, ma come e con quali strumenti filosofici elaborarla. Certo non è impresa facile, anzi si rivela come un compito che è allo stesso tempo ontologico, antropologico e morale. La tecnica implica una idea dell’essere e dell’ente, della loro necessità e trasformabilità; investe il carattere e la sostenibilità della divisione tra artificiale e naturale; si pone come creazione-estrinsecazione dell’essenza umana dal lato dell’inventare e del fare; nel momento della ideazione come in quello della applicazione incrociata delle categorie etiche del lecito e dell’illecito. Tra pensatori, uomini di cultura, letterati si sono alzate voci perplesse, critiche, ammonitrici sui rischi che gravano sull’uomo a motivo dell’impiego incontrollato che si va facendo della tecnologia. Un elenco che e lontano dall’essere completo include voci assai diverse: Husserl, Freud, Marcuse e la scuola di Francoforte, Heidegger, Jonas, Severino ecc. Con questi autori nasce un dibattito serrato sulla questione della tecnica, un argomentare che in via  generale darà di nuovo posizione rilevante alla filosofia. Una filosofia della scienza che si adopererà per realizzare una rinnovata filosofia della natura, consistente nel fatto che dovrà essere una “filosofia della natura con tecnica”, mentre le precedenti “erano senza tecnica”. Studiavano il loro oggetto separatamente, il che era allora legittimo per la scarsa intrusione dello strumento tecnico.
    Il rapporto tra scienza e filosofia ha caratterizzato gran parte del pensiero contemporaneo e quello francese in particolare, sino a diventare uno dei temi più costanti e dibattuti. Il dibattito si è concentrato essenzialmente sul ruolo e lo spazio specifico della filosofia nei confronti della scienza, sulla possibilità o meno di una filosofia intesa come conoscenza e discorso gnoseologico. Questo interesse costante per i contenuti teorici e conoscitivi delle varie pratiche scientifiche da parte dei filosofi di professione  e degli stessi scienziati ha messo di fatto in crisi la filosofia intesa come gnoseologia, creatrice cioè di apparati teoretici universalmente validi entro cui situare la scienza, discuterne la validità, il valore e soprattutto la sua verità, ritenuta importante ma di fatto inferiore alla conoscenza filosofica integrale. Uno dei risultati a cui perviene il pensiero francese contemporaneo è proprio la configurazione della filosofia come epistemologia, cosciente del fatto, come dice Piaget, “che i più grandi sistemi della storia della filosofia, cioè quelli che ne anno messi in moto altri e che anno esercitato una durevole influenza, sono tutti nati da una riflessione sulle scoperte scientifiche dei loro stessi autori o su di una rivoluzione scientifica contemporanea o immediatamente anteriore alla loro epoca”
     S. Piaget, Saggezza e illusioni della filosofia, tr.it. Torino 1969, pp.59-60..
    Il pensiero francese contemporaneo, erede della tradizione cartesiana prima e di quella comtiana dopo, si è sempre confrontato criticamente con vari modelli di razionalità scientifica emergenti, nel tentativo di coglierne le varie e complesse implicazioni filosofiche; ha cercato di trovare, ha dirle con Geymonat, “la filosofia nelle pieghe della scienza”
     Cfr. L. Geymonat, Lineamenti di filosofia della scienza, Milano 1985, cap.I., nel senso che la scienza crea continuamente veri problemi filosofici e le sue tappe costituiscono i momenti più significativi della stessa filosofia.  A tal proposito un esempio classico di tale indirizzo, di tale impostazione di pensiero è rintracciabile in una delle maggiori opere di Brunschvicg, “Les étapes de la philosophie mathématique”, dove storia del pensiero filosofico e scienza sono strettamente intrecciate, dove si riconosce la validità teoretica dell’impostazione kantiana come riflessione critica su specifici contenuti scientifici, anche se va continuamente adeguata e rettificata al reale divenire della scienza.
    L’opposizione classica tra scienza e filosofia, teorizzata per lo più dalla corrente idealistica, riceve nell’ambito francese una certa soluzione nel senso che non si nega la filosofia come tale; si nega un certo modo storico di fare lavoro e riflessioni filosofiche, consistenti nel creare presunte superiorità e divisioni, nello stabilire certe verità filosofiche e conoscienze metafiche oggettive che colmino le lacune di altri saperi particolari e in primo luogo della scienza, senza mai chiarire i limiti interni della stessa filosofia e i processi costitutivi degli stessi sistemi di pensiero: che il filosofo senta il bisogno di occuparsi dei limiti della scienza, nulla di più legittimo, ma a due condizioni: di non dimenticare quelli della filosofia  e di ricordarsi che poiché la scienza è essenzialmente aperta, le sue frontiere conoscibili non sono mai che attuali.
    E’ chiaro che le scienze nel xx secolo hanno conquistato un ruolo primario nella conoscenza del reale e, grazie alla tecnica, nella trasformazione  delle condizioni di vita; e primo compito della filosofia è prendere atto di questa situazione conoscitiva, in quanto non può raggiungere un certo numero di verità particolari, apodittiche e universali, riservate appunto alla conoscenza scientifica. In questo modo, il pensiero francese contemporaneo sul versante epistemologico è giunto alla conclusione che la filosofia non è scienza, anche se storicamente molte volte si è configurata come tale; ribadisce che il suo grande contributo dato al pensiero umano è stata la teoria della conoscenza, sorta proprio da una presa di coscienza dello status delle conoscenze scientifiche, i cui approfondimenti hanno provocato la nascita dei sistemi più significativi. La complessità e il nuovo statuto delle scienze, venutosi a formare dai primi dell’ottocento in poi, hanno fatto saltare qualsiasi teoria della conoscenza intesa nel senso classico e la filosofia, nel tentativo di cogliere i nuovi valori oggettivi e conoscitivi delle singole pratiche scientifiche, non poteva non modificare il proprio intervento teoretico. Grossi dibatti, scontri tra scienziati e filosofi, storici della scienza e storici del pensiero , hanno provocato in Francia la nascita di un nuovo sapere, l’epistemologia, che ha assunto nuovi connotati del tutto peculiari. Già, nel 1931, L.Geymonat giudicava l’epistemologia “uno dei vanti del pensiero contemporaneo francese”, proprio per la capacità di individuare i risvolti teoretici delle maggiori rivoluzioni scientifiche, molte volte male interpretati se non addirittura ignorati”
     Id., Il problema della conoscenza nel Positivismo, Torino 1991, pp. 100-101.. Nel pensiero francese contemporaneo, autori del calibro di Bachelard, Piaget, hanno dato un ruolo primario all’epistemologia proprio nel tentativo di salvare la tradizione teoretica del lavoro filosofico e di adeguarlo ai nuovi orizzonti conoscitivi raggiunti dalle varie scienze, ciascuna delle quali presenta una strategia cognitiva autonoma e un percorso di ricerca estremamente complesso. In questo senso, nonostante la riduzione della filosofia ad epistemologia orientata verso una comprensione storico-critica del fenomeno scienza soprattutto con Bachelard, nel pensiero francese contemporaneo la filosofia non viene concepita come ancilla scientiarum o metodologia scientifica come nel positivismo logico, ma come un momento essenziale nella coordinazione e nella presa d’atto dei problemi specifici della conoscenza scientifica: occorre avere il coraggio filosofico – a dirla con Piaget -, di capire anzitutto ciò che la filosofia non può essere, di capire i tradimenti da parte della stessa filosofia nei confronti di altri saperi, di prendere coscienza dei processi di interiorizzazione e falsificazione operati dal discorso filosofico verso le altre forme di razionalità. Per poter ridiventare la forma più pura ed integrale di problematicità, la filosofia deve provocare dentro di se una sorta di processo di autoumiliazione gnoseologica e conquistare uno spazio molto più ristretto rispetto al passato, ma non per questo meno significativo, nel porre i problemi, senza però risolverli. Ma per fare questo, la filosofia deve sottoporsi ad un intenso lavoro teorico e ad una immersione totale ai problemi più scottanti che emergono continuamente negli altri saperi e nella scienza in particolar modo.
     L’epistemologia francese raggiunge certamente esiti teorici radicali, sino a denunciare la povertà di una filosofia che si vuole autonoma dalla scienza, soprattutto con Bachelard e Desanti; essa storicamente viene raffigurata come un serio ostacolo epistemologico per la comprensione dei vari modelli di scientificità per i suoi discorsi fondazionali e generalizzanti. Ma nel pensiero francese contemporaneo vengono riconosciute la necessità e la crucialità dell’interazione tra scienza e filosofia, da cui scaturisce la proposta di un progetto di epistemologia debole come una via di soluzione teorica al plurisecolare conflitto; proprio per salvare un certo grado di autonomia alla riflessione filosofica, essa ha un compito preciso di vigilanza per evitare discorsi generalizzanti e fondazionali sulla razionalità scientifica; l’epistemologia debole deve anzitutto far risaltare i risvolti teoretici delle singole strategie cognitive e segna un percorso di ricerca  per evitare quella filosofia-dominio sempre in agguato e da cui forse è quasi impossibile difendersi totalmente. Così definendo la filosofia, emerge un punto di vista particolare, convergente con delle tesi avanzate in un altro contesto storico-culturale da K. Jaspers e da J.Piaget, soprattutto nella significativa opera “Saggezza e illusioni della filosofia”: la filosofia, distinta dalle scienze, come autentica riflessione critica, sorge all’interno della conoscenza scientifica senza pretendere di stabilire delle verità oggettive che inevitabilmente conducono a delle soluzioni dogmatiche e generalizzanti. Ed è singolare notare come siano convergenti le posizioni di Jaspers e uno dei risultati a cui è pervenuta l’epistemologia francese contemporanea: il carattere progressivo delle scienze e la loro universalità, la loro piena autonomia dalla riflessione filosofica che, chiarendo i suoi tradimenti non deve ostacolare lo sviluppo dei vari saperi, proprio perché all’interno di essi e nei vari contesti di ricerca compare la filosofia come momento critico, necessario per la volontà incondizionata di sapere.
    Jaspers e Piaget concordano nel ruolo insostituibile del discorso filosofico, inteso come “saggezza” o come “filosofia senza scienza”,  come presa di posizione ragionata sulla totalità del sapere; la filosofia, cioè, non produce saperi o verità, conoscenze particolari o apodittiche, accettate da tutti, compito questo assegnato alle scienze dotate di strumenti e tecniche appropriate nella conoscenza dei vari livelli del reale, ma essa è sempre per sua natura immersa nei vari ambiti scientifici. Jaspers e l’epistemologia francese contemporanea ripercorrono la crisi che ha investito la filosofia nel novecento nell’epoca della massima affermazione della ragione e della tecnica, convergono sull’impossibilità di una filosofia intesa ancora come scienza rigorosa e produttrice di saperi, con la proposta di una filosofia critica, aperta, problematica, non fondazionale. La filosofia nel nuovo contesto affidatogli dall’epistemologia francese ha come suo compito principale quello di unirsi alla scienza, e di adoperasi in un controllo nei confronti della tecnica, in un rapporto di sorveglianza attraverso il quale limitare l’impatto – oggi troppo violento- della tecnica contro l’uomo e la natura.
    Dal mito dunque – quale tecnica primordiale con cui l’uomo ha cercato di spiegare la realtà dicibile e non- si è passati ad una tecnica, o meglio ad un sapere tecnico scevro di ogni componente umana, di una tecnica non più controllabile dall’uomo che è stata elevata al rango di mito, di fede incontrovertibile e assoluta. Ciò perché spesso si tende ad isolare la tecnica come pura forma di modificazione della realtà, dimenticando che la tecnica è sempre una tecnica “scientifica”, o meglio, è la scienza che dev’essere “tecnica” per ottenere risultati tangibili.
    La fiducia da parte dell’uomo nei confronti della tecnica è giustificata da parte di tutte le buone cose che la tecnica , il progresso hanno fatto per l’uomo stesso; di contro abbiamo che la tecnica è troppo veloce per l’uomo e spesso incomprensibile per la maggioranza.  Mentre nel mito ogni cosa – per quanto assurda potesse essere – realizzava la componente umana – poiché l’uomo ne era il massimo ispiratore – la tecnica oggi sfugge all’uomo, lo esclude, in un crescendo sempre più ampio di non afferrabilità.
    Il filosofo deve capovolgere il proprio atteggiamento: non deve “vivere per filosofare”, ma “filosofare per vivere”
      F. Balbo, Idee per una filosofia dello sviluppo umano, in Opere 1945-1964, Torino 1966, pp. 399-400, 432..  L’acquisizione di tale atteggiamento retto del filosofare è frutto di una necessaria opera di educazione, se si vuole che la filosofia sia lavoro costruttivo e non mitico. Pertanto la filosofia deve accettare il metodo sperimentale, quello proprio della scienza e della tecnica, trasformandosi in scienza filosofica o filosofia scientifica, che ha come punto di partenza l’esperienza reale. Oggetto specifico della filosofia è il reale in fieri, di fronte al quale la filosofia è quella conoscenza che consente non solo di conoscere il reale in atto, presente, ma anche il futuro, la potenzialità, il non ancora. La filosofia non si deve chiudere più nell’ideale astratto, nell’idea dell’essere pensato, ma deve aprirsi all’essere reale, facendo del dato, del fatto, la condizione dello sviluppo umano. Infatti, umano, non è il progresso, così come esso si svolge, in senso economicistico e materialistico, umana non è la tecnica che si chiude nella specializzazione, parcellizzando l’esperienza, ma umana è la tecnica che, facendosi formula di liberazione, si apre alla totalità dell’uomo. Compito della filosofia è dunque la supervisione di due mezzi ineliminabili dell’uomo: il pensiero razionale e la fantasia. L’uno soggetto della scienza tecnica, l’altra della produzione mitico-simbolica. L’esperienza alchemica può servire proprio per riconoscere i due diversi ambiti e delimitarli nettamente e coscientemente, consci del fatto che “pensieri e immagini appartengono a “due discipline” senz’altro dificili da equilibrare, (…), ma che entrambe (…) concorrono a realizzare l’uomo, l’uomo nella sua complessità, nella complessità (plurale e divisa) delle sue dimensioni”
     C. Vinti, Il soggetto qualunque, Ed.Scientifiche italiane, Napoli 1997, p.963..




    § 2.3 alchimia e scienza



    L’analisi di quel momento particolare della storia della scienza che coincide con l’emancipazione dell’alchimia nella chimica, mostra come un’effettiva evoluzione delle tecniche di laboratorio e della concettualizzazione dei relativi risultati si sia accompagnata ad una progressiva perdita del significato originario di ricerca scientifica. La teoria del flogisto, emblematica degli stentati ma inesorabili progressi della nascente chimica, mette in evidenza una tendenza razionalistica “ingenua” ancora incapace di cogliere un effettivo contatto delle idee con gli oggetti del mondo.
    Proprio di “razionalismo ingenuo”
     G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, trad.it. a cura di E.C. Gattinara, Cortina, Milano 1995, p. 53. ha parlato Bachelard per indicare quel movimento di pensiero eterogeneo ma molto diffuso che ha visto nell’alchimia un ultimo baluardo materialista da scardinare per lasciar posto alla vera scienza. Che gli esperimenti alchemici non fossero precisamente verificazioni di ipotesi, risulta immediatamente evidente già dai propositi che gli alchimisti si proponevano: cercare l’elisir, o la materia universale, esclude a priori la possibilità di conformarsi a delle teorie scientifiche assiomatizzate, dato che l’oggetto della ricerca è talmente al di là dal semplice risultato tecnico, da caratterizzarsi propriamente come “conquista”.
    L’alchimista era in grado “di sperimentare il sacro nelle sue relazioni con la materia”
     M. Eliade, Arti del metallo e alchimia, trad.it. di F.Sircana, Boringhieri, Torino 1980, p.127. e quindi si poneva in una situazione differente da quella in cui si sarebbero posti gli artefici della scienza classica.
    Ciò che invece è da cogliere come insegnamento nell’alchimia è la capacità di porsi in relazione con il mondo senza cedere ad un facile realismo, senza cadere nella trappola di una pretesa “oggettivizzazione” della realtà fisica.
    Il dato empirico, per gli alchimisti, ha sempre un carattere che trascende il semplice “darsi” ad un “soggetto” conoscente; conoscere non significa appropriarsi di una realtà data e immediatamente intellegibile. Il realismo alchemico è “più un realismo affermato che un realismo constatato”
     G. Bachelard, La ragione scientifica, a cura di G. Sertoli, Bertani, Verona 1974, p.224..
    L’alchimista cerca nella natura ciò che in essa vi è di primordiale, di autentico, e per far questo si addentra nella materia attraverso azioni tese a purificare, a liberare dal caos materiale il semplice elemento cercato. Grazie alle operazioni alchemiche la sostanza viene trasmutata fino a raggiungere la sua perfezione. D’altra parte, la scelta stessa dell’oro come fine della trasformazione materiale è guidata da una pulsione inconscia verso ciò che si offre all’esperienza immediata come puro e incorruttibile; Bachelard cita a proposito De Locques, un medico del diciassettesimo secolo che cerca di spiegare le virtù intrinseche dell’oro enumerandone i pregi: “Essendo l’oro il più puro, il più spirituale, il più incorruttibile e il più temperato di tutti i soggetti, e visto che la natura l’ha arricchito con tutti questi doni del cielo e della terra, e che gli elementi riposano nell’oro come nel centro della loro perfezione (…), esso viene reputato a ragione un rimedio universale, che contiene le virtù degli elisir e delle meravigliose quintessenze”
     N. De Locques, Eléments philosophiques des arcanes et du dissolvant général, de leurs vertus, proprietés, effets, Paris 1668, p.48, cit. in G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, cit., p.168-169.. E’evidente il fatto che nessuna di queste potenze viene provata, a testimonianza del loro “valore inconscio”
     G. Bachelard, op.cit., p.169..
    La perfezione cercata dagli alchimisti non è, né può essere, una perfezione puramente fisica, poiché questa non avrebbe la possibilità di identificarsi con il principio e il fine della realtà; la perfezione materiale può esclusivamente simboleggiare una purezza superiore, come, nei presocratici, lo stoichéion può indicare l’arché, ma non può sostituirlo. La prevalenza di motivazioni inconscee su quelle più strettamente scientifiche rende evidente l’irriducibilità della ricerca alchemica ad una sorta di “pre-chimica”, dato che gli scopi stessi di chimica ed alchimia, sin dal primo sorgere della vera e propria scienza chimica, si caratterizzano nella loro opposizione.
    La fase che normalmente è considerata come genetica della scienza chimica moderna, quella della iatrochimica e del flogisto, è senz’altro analizzabile nelle idee che ha saputo proporre alla successiva razionalizzazione, ma dev’essere considerata anche come il campo d’azione di impulsi del tutto sconosciuti all’alchimia. Cercare l’elemento costitutivo di una sostanza a prescindere dal suo significato psicologico e irrazionale significa porsi in una prospettiva estranea e contrastante rispetto a quella nella quale si ponevano gli alchimisti. Se è vero che molti “scienziati” del periodo in questione erano largamente influenzati dalla tradizione alchimistica, è pur vero che, verso la fine del diciassettesimo secolo, si era giunti alla convinzione che l’alchimia fosse ormai un’esperienza conchiusa e che fosse sorta una nuova disciplina, permeata dello spirito innovatore del meccanicismo, più concreta nelle sue formulazioni e nelle sue ricerche, e soprattutto nei risultati. Il diffondersi poi dei presupposti fondamentali della nuova filosofia corpuscolare, radicalmente diversi da quelli alchimistici, accentuò infine il crollo definitivo della dottrina alchimistica. C’è da osservare che la critica all’alchimia supponeva in un certo senso una continuità della nuova chimica con essa, fondandosi sulla contestazione dei suoi mezzi, ma non dei suoi fini. La pretesa scientificità si voleva fondata su una liberazione dai pregiudizi medievali, di cui si vedeva intrisa l’alchimia, e sul rifiuto dell’esoterismo come petitio principiis. In realtà, le teorie e i modelli di stampo corpuscolare, elaborati al fine di indagare i fenomeni della trasmutazione, scomposizione e alterazione dei corpi, risultarono essere dei correlati meccanicistici troppo grezzi e non sufficientemente adeguati alla complessità dei fenomeni. Ciò a testimonianza del fatto che il solo richiamo all’esperienza non può garantire la scientificità di una teoria, e anzi, rischia di sfociare in una fedeltà incondizionata ai fatti che inficia e compromette la possibile razionalizzazione di essi.
    Spesso si individua nell’opera di Boyle il momento di passaggio dall’alchimia alla chimica, ma, a ben vedere, proprio l’impossibilità di trovare un’effettiva comunanza dello scienziato inglese con gli alchimisti rivela la sostanziale differenza tra alchimia e pre-chimica.
         Di fronte al problema della struttura della materia, Boyle si pone con il metodo analitico ricevuto in eredità da Bacone, e cerca di elencare innumerevoli qualità per scardinare il concetto aristotelico di sostanza; ma in fin dei conti non ottiene altro che la sostanzializzazione delle qualità, finendo per vedere alla base dei corpuscoli e del loro moto la mano della divinità. Boyle rifiuta l’atomismo come teoria affrettata e il suo conseguente materialismo come teoria empia, rivelando un dogmatismo di base che forse assomiglia al misticismo alchemico, ma che di esso non mantiene la coerenza. Boyle concepisce la rivelazione come un piano coerente che l’uomo può trovare nelle Scritture e nella natura, ma, nel contempo, vede tale ricerca come sostanzialmente tecnica, perché indirizzata al miglioramento delle condizioni di vita degli uomini. Boyle cerca insomma di creare una scienza del tutto umana ma anche del tutto divina. Gli alchimisti cercavano la pietra filosofale, e la loro ricerca era valida indipendentemente dal “trovare”, perché essa produceva comunque una purificazione interiore; per Boyle invece l’utilità era connessa con il carattere divino della natura: cercare le qualità dei corpi significava rintracciare l’ordine stabilito da Dio nella creazione del mondo, “l’opera che Dio svolge dall’inizio alla fine”
     F. Bacone, Del progredire della scienza, tr.it. a cura di C.Ascari, De Agostini, Novara 1966, p.217..
    Il misticismo alchemico è assolutamente diverso dalla presunta ortodossia di una scienza che cerca in sé la ragione del proprio operare, ma è differente anche dalla scienza secentesca che sembra proporre una commistione di pratiche alchimistiche e mezzi “scientifici”.  
    Boyle si propone dunque di liberare l’alchimia da tutto quel corredo di caratteri esoterici, mistici e quindi non perfettamente controllabili che però sono l’anima stessa di ogni procedimento alchemico.
    Ciò che rende realmente scientifica una scienza non è tanto il richiamo all’esperienza, quanto la capacità di ricavare dall’esperienza teorie in grado di prevedere nuove esperienze e quindi di “ordinare” ciò che della natura si presenta all’uomo come caotico. In questo senso l’alchimia è tanto lontana dalla scienza quanto lo sono i primi passi della scienza moderna, tutti guidati da un’epistemologia realista ma ingenua come è quella di stampo baconiano e boyliano.
    E’ evidente che un’analisi dell’alchimia debba svincolarsi dalla pretesa di rintracciare nei confusi risultati delle operazioni alchemiche i segni di un’epistemologia coerente e razionale. Gli alchimisti non possono aver fornito una teoria della scienza, per quanto inesatta la si voglia pensare, semplicemente perché non la cercavano, e perché i loro scopi erano del tutto divergenti da quelli “tecnici” che deve proporsi ogni scienza.
    L’alchimia è per contro “un’esperienza totale”
     C.Vinti, Il soggetto qualunque, cit., p.869. la cui portata si rivela fondamentale nel momento in cui si coglie di questa “non-scienza” l’impulso che può derivare ai fini di una più completa e umana ricerca scientifica.
    Nell’alchimia il soggetto che si offre alla ricerca di una qualche relazione tra materiali o tra corpi non può in alcun modo distinguere un prima e un dopo tali da delineare un cammino che si muova da un’ipotesi ad una verifica.  L’ipotesi di un “esperimento” alchimistico è dato e risolto in un tutt’uno con il risultato che si ottiene: se un metallo non riesce a trasmutarsi in un altro significa che il risultato della mutazione è compromesso da un errore dell’operatore. Se, al contrario, si ottiene ciò che ci si aspetta, il vero risultato è la stessa operazione, la cui procedura è “sacra” esattamente quanto il materiale trattato, poiché è essa stessa rivelata. Nell’alchimia non è possibile dunque alcun progresso perché l’intimità che si realizza con l’oggetto da analizzare è talmente mistica che il rapporto oggetto-soggetto si inverte, finendo per creare una situazione in cui è l’alchimista ad essere “sperimentato” e purificato dall’incontro con la materia.  
    La chimica non può dunque pretendere una continuità con l’alchimia, in quanto di questa va invece evidenziata la capacità positiva di isolare simboli e desideri. “La chimica ha raccolto solo insignificanti frammenti dell’eredità alchmica”
     M. Eliade, Arti del metallo e alchimia, cit., p. 160., in quanto ha desacralizzato il rapporto dell’homo faber con la natura, e così facendo ha ridotto la ricerca della trasmutazione della natura ad una semplice e rudimentale tecnica composta di innumerevoli quanto disorganici tentativi di laboratorio.
    Il mondo moderno, immensamente tecnicizzato, sembra aver ottenuto i risultati che gli alchimisti non potevano ottenere; l’uomo è ormai in grado di trasformare, se non di creare, la materia. Di certo l’idea di una conoscenza che possa andare oltre il campo del visibile è una eredità alchimistica; l’operatore medievale non si basa mai semplicemente su ciò che si offre come “dato di fatto”, come esperienza diretta. L’alchimista cerca “nella” natura, non cerca soltanto “la” natura; cerca di scoprire legami inevidenti interni alla materia e proprio nella non-evidenza di questi risiede il loro potenziale simbolico. Al tempo stesso però la non scientificità delle pratiche alchemiche impediva di poter imporre alla natura degli schemi razionali. La chimica moderna ha la sua forza nella possibilità di trovare il razionale nel caotico, la materia in ciò che appare come immateriale: in sostanza, il numero. La “supremazia del numero sulla cosa”
     G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico, Laterza, Bari 1978, p.74. nella chimica scientifica ha liberato la fase sperimentale da una certa “soggezione” nei confronti della natura.  Oggi, nella conoscenza scientifica, la ragione non conosce una natura pura, ma fabbrica una contro-natura che in tanto è pura in quanto è il prodotto di un atto che si allontana dall’im-posizione della naturalità. Conoscere non è più semplicemente un prendere atto della razionalità insita nella natura, bensì è un produrre effetti tesi ad ordinare una razionalità che nella natura si dà solo come “possibile” o “potenziale”. La relatività einsteniana e soprattutto la meccanica quantistica insegnano che la teoria, l’azione del conoscere non è già l’esplicitazione di un dato, bensì è un metodo costruttivo che prende la sua forza dalla capacità di “forzare” gli schemi mentali che si offrono naturalmente all’uomo. Nella chimica le sostanze e gli elementi non sono dati ma risultati
     Cfr. Id., Il materialismo razionale, Dedalo, Bari, p. 57., “la chimie crée son objet”
     Id., Le pluralisme cohérent de la chimie moderne, Vrin, Paris 1973, p.7., sostiene Bachelard, poiché essa può, esclusivamente attraverso le teorie, produrre elementi: esattamente ciò che cercavano gli alchimisti con un’azione diretta sulla materia. Già Brunschvicg ha sostenuto il rifiuto di un’esperienza anteriore alla teoria e di una realtà intesa come sistema di dati, dove la vera concretezza è individuabile nell’astratto
     Cfr. L. Brunchsvicg, Héritage de mots, héritage d’idées, Paris, Puf, 1945, p.20 e ss.; ma questa concezione non è se non la rivincita di Cartesio su Bacone e sul baconismo. La matematica “inventa” una realtà
     G. Sertoli, Le immagini e la realtà, La Nuova Italia, Firenze 1972, p.44. e impone alla natura la propria razionalità, l’alchimista invece “adotta” una realtà, comunque non evidente, ma in virtù della potenza della rivelazione esoterica. E’ evidente che in questo cercare nella realtà un qualcosa di non dato l’alchimia pone le basi della tecnicizzazione della scienza, ma allo stesso tempo si colloca al di là della storia della scienza perché nella natura non può che trovare una razionalità
     E’ ovvio che nel caso dell’alchimia non è possibile parlare di razionalità nel senso assolutamente epistémico che il termine ha acquistato oggi; per razionalità alchemica si può invece intendere una semplice comprensibiltà derivante dalla corrispondenza tra dottrina rivelata e risultato dell’esperienza di laboratorio. profondamente mistica e del tutto slegata da ogni presupposto ipotetico-deduttivo.
    L’alchimista non è un tecnico se per tecnica si intende ciò che per noi contemporanei il termine tecnica può significare: non solo trasformazione del mondo, ma trasformazione del mondo attraverso l’imposizione di una razionalità umana. Ma, se si spinge lo sguardo al di là della rivoluzione scientifica moderna, l’alchimista può anche essere considerato l’ultimo rappresentante di una téchne ancora indivisa in arte e tecnica, e, quindi, ancora dipendente dalla forza della natura e dalla indocilità della materia come sostrato.
    D’altra parte l’alchimia si sviluppa avendo in seno una diversità costitutiva rispetto alla scienza, anche laddove si consideri scientifica la semplice ricerca della verità: l’alchimista non pretende e non vuole che la sua conoscenza conduca ad un miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani. La ricerca dell’elisir non serve a fornire all’umanità una migliore possibilità di esistenza. Ciò che contraddistingue il sapere alchemico è il carattere esoterico, mentre ciò che fa di una conoscenza una conoscenza scientifica è la pubblicità dei propri metodi e risultati. La scienza presuppone insomma una comunità scientifica che sia nella condizione di verificare o falsificare ogni teoria proposta.
    L’alchimista, al contrario, individua proprio nella segretezza il carattere fondamentale del proprio lavoro di ricerca. Il laboratorio alchimistico vede l’operatore a contatto con la propria materia e i propri strumenti, ma mai permette a quelli che vi lavorano un autentico rapporto intersoggettivo. Gli stessi collaboratori dell’alchimista altro non sono se non adepti che nulla possono in merito all’eventuale controllo degli esperimenti. Il procedimento alchemico è un procedimento soggettivo, e per questo non può essere controllato senza perdere valore di purificazione.
    L’alchimista cerca in sé l’oro, ed esclude quindi a priori che questo possa “servire” a qualcuno o a qualcosa. L’alchimista è un iniziato alla verità alchemica in quanto oggetto della rivelazione divina. Gli alchimisti “concordano nel dire che la loro arte è sacra e divina e anche che la loro opera può essere compiuta unicamente con l’aiuto di Dio. Questa scienza è data soltanto a pochissimi, e nessuno la comprende cui Dio o un Maestro non abbia aperta una via per comprenderla”
     C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Roma 1950, p.342.; ciò significa che non solo il metodo dev’essere esoterico perché la rivelazione è concessa solo a pochi, ma anche che solo quei pochi possono comprenderla. L’esoterismo è dunque, oltre che una necessità imposta dall’alto, una necessità intrinseca della rivelazione, e quindi insuperabile. L’alchimista potrebbe anche rivelare a chiunque i suoi metodi, ma andrebbe incontro ad una generale incomprensione causata dall’impotenza della maggioranza a cogliere il significato delle sottili metafore e delle ricette espresse con linguaggio ambiguo e fuorviante.
    La differenza tra mentalità scientifica e mentalità alchimistica è riassumibile tutta nella distanza che si stabilisce tra esperimento e rito, tra ipotesi e rivelazione, tra pubblicità ed esoterismo. E’ evidente che nel caso dell’alchimia tutte le fasi del metodo, tutti i concetti assumono i tratti di metodi e concetti religiosi; eppure, lungi dall’essere puro misticismo, l’alchimia cerca, diversamente dalle religioni, di raggiungere il proprio scopo soprannaturale agendo direttamente all’interno della materia naturale. Il confronto che si stabilisce tra uomo e natura non è molto dissimile da quello che si crea tra “cosa” e natura. Entrambi i soggetti hanno infatti bisogno dell’altro per accogliere la rivelazione. L’uomo non può senza la materia operare quella purificazione spirituale che è lo scopo della sua ricerca, né la materia vile può cambiarsi in oro senza la sapienza dell’operatore.
    La relazione tra uomo, materia e natura e una relazione di tipo sostanzialmente “fisico”, laddove per fisico di intenda l’essere inseriti in una physis che si presenta come unità di naturale e soprannaturale. Ciò che fa nascere l’alchimia è un ostacolo epistemologico dovuto all’introduzione nell’esperimento delle proprie passioni, ma ciò non toglie che un ostacolo possa essere superato e divenire una precomprensione. Proprio nella distanza tra razionalità scientifica e irrazionalità alchemica si deve cercare la possibilità di distinguere due modalità del pensiero, non assorbendo l’una nell’altra, ma salvandole con la consapevolezza del pericolo che l’una possa tendere verso l’altra.
    La chimica deve prendere dall’alchimia la considerazione dell’armonia tra soggetto e oggetto e il rifiuto dell’assoluto empirismo e dell’assoluto razionalismo, che proprio perché assoluti rischiano di diventare “ingenui”. Lo scienziato deve informare la natura tenendo presente che l’informità di questa può, per un verso, ostacolare la razionalizzazione attraverso l’influsso simbolico che naturalmente si verifica, per l’altro, servire alla organizzazione degli scopi e del senso stesso della conoscenza.
    “L’alchimia regna in un’epoca in cui l’uomo ama più la natura di quanto non la utilizzi: E questa parola “amore” trascina tutto. E’ la parola d’ordine fra l’opera e l’operaio”
     G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, cit.,p.60..



















    CONCLUSIONE






    L’alchimia: una disciplina di confine

    “Il mondo non è un automa, né il caos. (…) E’ un mondo che non è descritto da un’unica verità. Sento perciò come davvero assai soddisfacente il fatto che la scienza possa essere di aiuto nella costruzione di ponti, e nel conciliare posizioni opposte senza negarle”
     I. Prigogine, Dall’essere al divenire, trad.it. di G. Bocchi e M. Ceruti, Einaudi, Torino 1986, p.227.
                                           I. Prigogine



    Amati, odiati, spesso temuti, l’alchimia e gli alchimisti hanno attraversato gli ultimi secoli accompagnati da una fama ambigua, spesso vicina al sospetto per chi non ne ha condiviso lo spirito.
    Il fatto stesso che all’alchimia sia sopravvissuta la propria stessa fama rivela la non trascurabile portata di un problema la cui soluzione ancora si fa attendere: perché la scienza ufficiale non ha saputo estirpare completamente il bisogno di ricorrere a pratiche antiche ed esoteriche per avvicinarsi al mondo materiale? Forse c’è qualcosa ancora da scoprire nel rapporto tra l’uomo e la natura che impedisce di affidarsi a cuor leggero al dominio tecnico della scienza?
    Nell’analisi compiuta, attraverso secoli ed esperienze lontane, si è cercato di individuare dell’alchimia il punto chiave, capace di illuminare ogni rapporto di questa con le altre scienze. Ebbene, proprio la distanza che gli alchimisti hanno frapposto tra i loro metodi e quelli degli scienziati ha reso possibile un confronto proficuo per entrambe.
    Chi volesse oggi proporre un’interpretazione dell’alchimia basata su una presunta continuità tra alchimia e scienza dovrebbe rendere conto di segni evidenti di frattura tra lo statuto epistemologico dell’una con quello dell’altra.
    Abbiamo visto come la prevalenza di motivazioni inconsce su quelle  più strettamente scientifiche  renda evidente l’irriducibilità della ricerca alchemica ad una sorta di “pre-chimica”, dato che gli scopi stessi di chimica ed alchimia, sin dal primo sorgere di quest’ultima, si caratterizzano nella loro opposizione. Pensare ad una continuità tra alchimia e chimica vorrebbe dire concepire nel limite di quella il pregio di questa; significherebbe insomma individuare nel metodo l’ostacolo che non ha permesso agli alchimisti di emanciparsi in chimici.
    Questo d’altronde è ciò che aveva creduto Boyle nel tentativo di introdurre un metodo più controllabile nelle ricerche chimiche. Egli si proponeva di liberare le pratiche alchemiche da tutti gli elementi esoterici e mistici, non rendendosi conto che proprio in essi risiedeva il significato più profondo dell’alchimia.
    Ciò che rende realmente “scientifica” una scienza non è tanto il richiamo all’esperienza, quanto la capacità di ricavare dall’esperienza teorie in grado di prevedere nuove esperienze e quindi di “ordinare” ciò che della natura si presenta all’uomo come caotico. E in questo l’alchimia non può che cedere il passo alla chimica e alla fisica moderne. Ma, a ben vedere, non era la previsione di fenomeni lo scopo degli alchimisti, che anzi, si proponevano di raggiungere una propria purificazione spirituale, attraverso la purificazione della materia.
    Si capisce dunque che la crux esegetica dell’alchimia non risiede tanto nei mezzi adottati e nei risultati raggiunti, quanto nella più generale visione del mondo che ne informava le pratiche.
    Se l’alchimia non può e non deve essere assimilata alla scienza, ciò non toglie che possa proporsi come metodo di conoscenza, mirando “ad una comprensione unitaria e totale, che è insieme conoscenza e saggezza, intelletto e penetrazione intuitiva”
     M. Dal Pra, op.cit., p.283.. L’alchimista era in grado “di sperimentare il sacro nelle sue relazioni con la materia”
     M. Eliade, Arti del metallo e alchimia, cit., p.127. e quindi si poneva in una situazione differente da quella in cui si sarebbero posti gli artefici della scienza classica.
    Ciò che è da cogliere come insegnamento nell’alchimia è la capacità di porsi in relazione con il mondo senza cedere ad un facile realismo, senza cadere nella trappola di una pretesa “oggettivizzazione” della realtà fisica.
    Il dato empirico, per gli alchimisti, ha sempre un carattere che trascende il semplice “darsi” ad un “soggetto” conoscente; conoscere non significa appropriarsi di una realtà data e immediatamente intellegibile. Il realismo alchemico è “più un realismo affermato che un realismo constatato”
     G. Bachelard, La ragione scientifica, cit., p.224..
    L’alchimista cerca nella natura ciò che in essa vi è di primordiale, di autentico, e per far questo si addentra nella materia attraverso azioni tese a purificare, a liberare dal caos materiale il semplice elemento cercato. Grazie alle operazioni alchemiche la sostanza viene trasmutata fino a raggiungere la sua perfezione, e questa è la condizione per permettere la purificazione stessa dell’alchimista.
    Il problema posto come ipotesi, ovvero la possibilità di un’eventuale terza via tra interpretazione simbolica e interpretazione antropologica, sembra dunque suggerire la propria soluzione: l’alchimia nasce da un carico di pulsioni inconsce, si sviluppa attraverso la correlazione di materiale simbolico, ma rappresenta tutta intera una vera disciplina di confine capace di prospettare una propria valida e costruttiva concezione della realtà.
    L’alchimia è dunque un’arte, più che una scienza, che si richiama alla téchne greca più che alla scienza tecnica odierna. Da ciò si comprende la giusta analisi bachelardiana che è tesa ad individuare nelle pulsioni alchemiche quel soggettivismo da evitare laddove si voglia fare vera scienza. Il metodo dell’alchimia rappresenta un esempio di un vero e proprio ostacolo epistemologico. L’operatore non può fare a meno di partecipare emotivamente ad un’ipotesi che nel suo caso corrisponde inevitabilmente ad una rivelazione di quella natura divina che si vuole sottoporre a prova.
    Proprio nella distanza tra razionalità scientifica e irrazionalità alchemica si deve cercare la possibilità di distinguere due modalità del pensiero, non assorbendo l’una nell’altra, ma salvandole con la consapevolezza del pericolo che la forza dell’una può compromettere la vitalità dell’altra.
    La considerazione della irriducibilità di due possibilità del pensiero può servire quindi per chiarire il nesso inevidente tra alchimia e chimica, al di là di tutte le differenze e le opposizioni manifeste. La chimica moderna, che potrebbe sembrare l’evoluzione di una chimica non raffinata e ancora ingenua, quale sarebbe l’alchimia, è al contrario una scienza nata da un presupposto ben più lontano dalla concezione newtoniana della realtà di quanto non lo sia da quella alchemica.
    La chimica contemporanea crea i suoi stessi oggetti di studio e non fa che ordinare una natura fenomenicamente caotica. Come gli alchimisti cercavano di spogliare la materia per raggiungere il nucleo puro, così i chimici organizzano una rete signica, fatta di elementi costruiti artificialmente, per trovare nella natura un ordine nascosto.
    La scienza moderna sembra dunque realizzare il vecchio sogno degli alchimisti di trovare il cuore della materia e di qui agire per trasformare e trasformarsi in qualcosa di diverso, di migliore.
    La chimica oggi, “scienza sperimentale e positiva più di tutte”
     Id., Il materialismo razionale, cit., p. 261, sancisce la superiorità del metodo sul dato empirico semplice, della teoria sulla cosa, tanto che “le sostanze chimiche appaiono (…) come esempi di leggi, piuttosto che come esempi di cose”
     Id., Le pluralisme cohérent de la chimie moderne, cit., p.23.
    I chimici, come gli alchimisti di un tempo, possono predire le proprietà di una sostanza non ancora conosciuta, ma, se nelle officine del seicento ciò avveniva per mezzo di combinazioni simboliche, nei moderni laboratori avviene , scientificamente, attraverso la costruzione di teorie razionali. Se gli alchimisti associavano i vari metalli attraverso “nozze” e legamenti, i chimici moderni, dopo la creazione della tavola periodica di Mendeleev, definiscono ogni elemento “non come qualcosa in sé, come una individualità isolata, ma nella sua relazione con gli altri elementi”
     C.Vinti, Bachelard, ragione e realtà nella chimica contemporanea, cit., p.194-195..
    La fisica einsteniana e la meccanica quantistica hanno d’altra parte contribuito a spazzare via gli antichi assiomi su una distanza incolmabile tra realtà materiale e realtà spirituale, in questo avvicinandosi alla concezione alchemica.
    La teoria della relatività ha avuto una profonda influenza sulla nostra idea di materia, obbligandoci a modificare in modo sostanziale il concetto di particella. Nella fisica classica, la massa era sempre stata associata a una sostanza materiale indistruttibile, a una qualche “cosa” della quale si pensava fossero fatte tutte le cose. La fisica moderna ha invece dato una risposta del tutto inaspettata al problema: l’unico modo per dividere ulteriormente le particelle subatomiche è quello di farle interagire tra loro in processi d’urto ad alta energia. Così facendo possiamo dividere sempre più la materia, ma non otteniamo mai pezzi più piccoli, perché creiamo le particelle a spese dell’energia coinvolta nel processo. Le particelle subatomiche sono quindi distruttibili e indistruttibili allo stesso tempo.
    La teoria della relatività ha mostrato che la massa non ha nulla a che fare con una qualsiasi sostanza, ma è una forma d’energia e quindi dev’essere considerata nelle sue interrelazioni con altre forme d’energia.
    Lo stesso ruolo dello scienziato è andato sempre di più avvicinandosi a quello dell’operatore alchemico in quanto alla mancanza di neutralità rispetto all’esperimento condotto. Oggi il soggetto sperimentante non può più pensare di osservare dal di fuori un esperimento, ma deve prendere atto della mutua interrelazione tra il proprio ruolo e il risultato ottenuto.
    Nella fisica moderna, come nell’alchimia, l’universo appare quindi come un tutto dinamico che comprende sempre l’osservatore in modo essenziale. La caratteristica più importante della concezione del mondo alchemica - si potrebbe dire la sua essenza – è d’altronde la consapevolezza dell’unità e della correlazione di tutte le cose e di tutti gli eventi, la constatazione che tutti i fenomeni nel mondo sono manifestazioni di una fondamentale organicità mistica.
    La scienza moderna, nel suo sviluppo più complesso quale può essere colto nel nostro tempo, si apre dunque ad una qualche similitudine con l’ormai abbandonato quadro teorico dell’alchimia.
    “Per altri rispetti, invece, la scienza moderna si è costituita e si mantiene in opposizione con lo statuto teorico e pratico dell’alchimia”
     M. Dal Pra, op.cit., p.285.. Tale opposizione si può cogliere, con maggiore evidenza, tra le strutture quantitative della scienza moderna e la tradizionale impostazione qualitativa in cui l’alchimia si schiera con un’antica filosofia della natura; per non dire del vasto quadro simbolico ed allusivo di cui si avvale l’alchimia in contrapposizione col linguaggio più rigoroso e controllato della scienza.
    Né si può trascurare il nesso intrinseco di conoscenza e di intervento operativo che oggi si viene svolgendo attraverso una più cauta distinzione dei momenti dell’indagine scientifica, o il confìgurarsi di una più insistente richiesta di esplicite motivazioni umane di fronte al rischio di uno svolgimento autonomo, e in parte meccanico, della componente conoscitiva.
    “Il passaggio dall’alchimia alla odierna considerazione unitaria dell’universo ha dato luogo, certamente, a profonde trasformazioni; ma, come accade in ogni reale svolgimento storico, anche le posizioni più lontane e contraddittorie si collegano con un filo di continuità e di integrazione; è questo filo a costringerci a considerare la vicenda dell’alchimia come qualche cosa di diverso da un colossale errore o pregiudizio della storia, e pertanto ricca di un significato più ampio e costruttivo”
     Ibid..
     






















    bibliografia



    Opere generali e studi sull’alchimia

    Aivanhov, O., Il lavoro alchemico, ovvero la ricerca della perfezione, Cedex, Prosveta 1990.
    Alchimia:la tradizione in occidente secondo le fonti manoscritte e a stampa, a cura di N. Gabriele, La Biennale di Venezia, Venezia 1986.
    Allou, R., Aspetti dell’alchimia tradizionale, trad.it. di P.Imperio, Atanor, Roma 1989.
    Ambesi, A.C., Scienze, arti e alchimia, Xenia, Milano 1991.
    Andreani, S., Alchimia: appunti per una semiologia del sacro, ERI, Torino 1976.
    Aromatico, A., Alchimia: l’oro della conoscenza, Electa, Torino 1996.
    Berthelot, M., Les origines de l’alchimie, Steinheil, Paris 1885.
    Burchkardt, T., Alchimia: significato e visione del mondo, trad.it. a cura di F. Bruno, Guanda, Milano 1981.
    Canseliet, E., L’alchimia, trad.it. di P.Lucarelli, Edizioni mediterranee, Roma 1985.
    Caron, M., Gli alchimisti, trad.it. di N.Soffiantini, Mondadori, Milano 1962.
    Colnort-Bodet, S., Le code alchimique devoile: distillateurs, alchimistes et simbolistes, Champio, Paris 1989.
    Di Nardo, G., Lingua sacra e simbolismo alchemico, Il basilisco, Genova 1983.
    Doberer, K., L’oro alchemico: storia di una ricerca millenaria, ECIG, Genova 1994.
    Domini, D., Chymica Vannus: dell’alchimia o la scienza sognata, Longo, Roma 1985.
    Eliade, M., Il mito dell’alchimia, Avanzini e Torraca, Roma 1968.
    Figuier, L.G., L’alchimia svelata, Basaia, Roma 1988.
    Franz, M.L. von-, Alchimia, Boringhieri, Torino 1984.
    Gentili, A., Aurora consurgens: l’alba del pensiero alchemico ermetico, Kemi, Milano 1980.
    Gilchrist, C., L’alchimia: storia della pratica alchemica dalle origini al XX° secolo, trad.it. di S. Doffo, Convivio, Firenze 1990.
    Glichrist, C., L’alchimia, trad.it. di V. Cucchi, Xenia, Milano 1993.
    Halleux, R., Les textes alchimiques, Brepols, Turnhout 1979.
    Holymard, E.J., Storia dell’alchimia, trad.it. di C.G. Ciappei, Sansoni, Firenze 1972.
    Hutin, L’alchimie, Presses universitaires de France, Paris 1975.
    Jolivet-Castellot, F., Storia dell’alchimia, trad.it. di P. Bornia, Bastogi, Foggia 1992.
    Jung, C.G., Mysterium coniunctonis: ricerche sulla separazione e composizione degli opposti psichici nell’alchimia, trad.it. di M. A. Massimello, Boringhieri, Torino 1989.
    Jung, C.G., Studi sull’alchimia, Sansoni, Firenze 1988.
    Klossowski De Rola, S., Alchimia: dall’esperienza all’occulto, Red, Como 1988.
    Mariani, F., Introduzione alla pratica alchemica: il risveglio iniziatico attraverso l’alchimia, Bastogi, Foggia 1982.
    Minguzzi, E., Alchimia: il cammino della potenza, Armenia, Milano 1976.
    Obrist, B., Le débuts de l’imagerie alchimique (XIV-XV siècles), Centre national de rel. scientiphique, Paris 1982.
    Pancaldi, A., Alchimia pratica, Atanor, Roma 1983.
    Pereira, M., L’oro dei filosofi, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, Spoleto 1992.
    Powell, N., Il fascino dell’alchimia, trad.it. di P. Ghidoli, RM, Milano 1977.
    Psellus, M., La crisopea ovvero come fabbricare l’oro, trad.it. di F. Albini, ECIG, Genova 1988.
    Ranque, G., La pietra filosofale, trad.it. di V. Montenegro, Edizioni mediterranee, Roma 1973.
    Rizzatti, F., La pietra filosofale, Libreria romana, Roma 1862.
    Sadoul, J., Il tesoro degli alchimisti, trad.it. di J. Comin, Edizioni mediterranee, Roma 1972.
    Schwarz, A. L’immaginazione alchemica, La Salamandra, Milano 1979.
    Widmann, C., Alchimia della psiche, PD, Abano Terme 1990.
    Zolla, E. Le meraviglie della natura: introduzione all’alchimia, Marsilio, Venezia 1991.
     


    Testi di storia della scienza

    Abbri, F., Elementi, principi e particelle: le teorie chimiche da Paracelso a Stahl, Loescher, Torino 1980.
    Abbri, F., La chimica del Settecento, Loescher, Torino 1978.
    Asimov, I. , Breve storia della chimica: introduzione alle idee della chimica, Zanichelli, Bologna 1987.
    Bensaude-Vincent, B., Histoire de la chimie, La Decouverte, Paris 1993.
    Berthelot, M., La chimie au Moyen age, Osnabruck 1967.
    Cassirer, E., Sostanza e funzione: sulla teoria della relatività di Einstein, La Nuova Italia, Firenze 1973.
    Di Meo, A., Il chimico e l’alchimista: materiali all’origine di una scienza moderna, Editori riuniti, Roma 1981.
    Di Meo, A., Storia della chimica, TEN, Roma 1994.
    Ghisotti, F., Dall’alchimia alla chimica, Fenice 2000, Milano 1994.
    Jaffe, B., La conquista della materia: dall’alchimia alla radioattività artificiale, trad.it. a cura di S. Fachini, Mondadori, Milano 1937.
    Le scienze fisiche, a cura di G.Allard, Lucarini, Roma 1983.
    Leicester, H., Storia della chimica, ISEDI, Milano 1978.
    Maiocchi, R., Storia della scienza in Occidente, La Nuova Italia, Scandicci 1995.
    Masini, G., Gli architetti delle molecole, Giunti, Firenze 1972.
    Read, J., Dall’alchimia alla chimica, Longanesi, Milano 1960.
    Reichen, C.A., Histoire de la chimie, Rencontre, Lausanne 1963.
    Reichen, C.A., Storia della chimica, Mursia, Milano 1964.
    Selleri, F.; Nutricati, P., Oltre i paradossi della fisica moderna, Dedalo, Bari 1998.
    Solov’ev, J.I., L’evoluzione del pensiero chimico: dal ‘600 ai giorni nostri, a cura di A. Quilico, Mondadori, Milano 1976.
    Storia della scienza contemporanea, a cura di R.Taton, Lucarini, Roma 1983.
    Storia e fondamenti della chimica: atti del 4 Convegno nazionale, Venezia 7-9 Novembre 1991, a cura di G.Michelon, Accademia nazionale delle scienze, Venezia 1992.
    Tagliaferri, G., Storia della fisica quantistica, Angeli, Milano 1985.
    Toraldo di Francia, G., Il problema del cosmo, Istituto dell’enciclopedia italiana, Roma 1982.
    Tugnoli Pattaro, S., Dalla chimica del flogisto alle teoria lavoisieriane dell’ossidazione e del calore, Clueb, Bologna 1984.
    Tugnoli Pattaro, S., La teoria del flogisto: alle origini della rivoluzione chimica, Clueb, Bologna 1983.
    Wojtkowiak, B., Histoire de la chimie: de l’alchimie à la chimie moderne, Technique et documentation, Paris 1988.







    Testi di riferimento


    Abbri, F., Le terre, l’acqua, le arie: la rivoluzione chimica del ‘700, Il Mulino, Bologna 1984.
    Aristotele, De anima, in Opere IV, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari 1973.
    Aristotele, Fisica, in ivi, III.
    Aristotele, Metafisica, in ivi, VI.
    Aristotele, Poetica, in ivi, X.
    Bachelard, G., Il materialismo razionale, Dedalo, Bari 1975.
    Bachelard, G., L’expérience de l’espace dans la physique contemporaine, Alcan, Paris 1937.
    Bachelard, G., La formazione dello spirito scientifico, trad.it. a cura di E.C. Gattinara, Cortina, Milano 1995.
    Bachelard, G., La ragione scientifica, a cura di G. Sertoli, Bertani, Verona 1974.
    Bachelard, G., La terre et les rêveries du répos, Corti, Paris 1988.
    Bachelard, G., Le pluralisme cohérent de la chimie moderne, Vrin, Paris 1973.
    Bacone, F., Del progredire della scienza, trad.it. a cura di C. Ascari, De Agostini, Novara 1966.
    Bacone, F., Novum Organuum, a cura di E. De Mas, La scuola, Brescia 1970.
    Balbo, F., Idee per una filosofia dello sviluppo umano, in Opere 1945-1964, Torino 1966.
    Bianchi, M.L., Introduzione a Paracelso, Laterza, Roma 1995.
    Bloomfield, H., Scienza del linguaggio e linguaggio della scienza, Padova 1970.
    Boyle, R., Il chimico scettico, in Opere, UTET, Torino 1977.
    Brunchsvicg, L., Héritage de mots, héritage d’idées, Puf, Paris 1945.
    Carbonara, C., F. Bacone e il metodo sperimentale, Libreria scientifica editrice, Napoli 1963.
    Cassirer, E., Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza da Bacone a Kant, Einaudi, Torino 1961.
    Castellana, M., Epistemologia debole. Bachelard, Desanti, Raymond, Bertani, Verona 1985.
    Ciardo, M., Il dramma della metafisica nell’età contemporanea, Patron, Bologna 1967.
    Dal Pra, M., voce Alchimia in Enciclopedia Einaudi, I, 1977.
    Davies, P., Il fantasma dell’atomo, trad.it. di E. Di Domenico, Città Nuova, Roma 1992.
    Duhem, P., Salvare i fenomeni, Borla, Roma 1986.
    Eliade, M., Arti del metallo e alchimia, trad.it. a cura di F. Sircana, Boringhieri, Torino 1980.
    Farrington, B., F. Bacone filosofo dell’età industriale, Einaudi, Torino 1967.
    Fattori, M., Introduzione a F. Bacon, Laterza, Bari 1997.
    Formenti, C., Prometeo ed Hermes, Liguori, Napoli 1987.
    Friedmann, G., L’uomo e la tecnica, Etas Kompass, Milano 1968.
    Gadamer, H.G., Verità e metodo, trad.it. di G. Vattimo, Fabbri, Milano 1972.
    Galimberti, U., Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999.
    Gambazzi, P., L’alchimia in Bachelard, in “Immediati dintorni”, 1989.
    Gehelen, A., L’uomo nell’era della tecnica, SugarCo, Milano 1967.
    Gemelli, B., Aspetti dell’atomismo classico nella filosofia di F. Bacon e nel seicento, Olschki, Firenze 1996.
    Geymonat, L., Il problema della conoscenza nel Positivismo, Torino 1991.
    Geymonat, L., Lineamenti di filosofia della scienza, Milano 1985.
    Hall, A.R., La rivoluzione scientifica 1500/1800: la formazione dell’atteggiamento scientifico moderno, Feltrinelli, Milano 1981.
    Heidegger, M., Su L’umanismo, in Che cos’è la metafisica?, La Nuova Italia, Firenze 1967.
    Heidegger, M., Saggi e discorsi, trad.it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1985.
    Heidegger, M., Qual è l’essenza nascosta della tecnica moderna, SugarCo, Milano 1979.
    Heisenberg, W., Fisica e filosofia, Il Saggiatore, Milano 1961.
    Hoyle, F., Frontiere dell’astronomia, Bompiani, Milano 1958.
    Ippolito, M., All’ombra della tecnica, Il Mulino, Bologna 1981.
    I Presocratici, a cura di A. Lami, Fabbri, Milano 1996.
    Jung, C.G., Psicologia e alchimia, trad.it., Roma 1950.
    Koyré, A., Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, trad.it. di F. Zimbelli, Einaudi, Torino 1980.
    Lakatos, I., Sull’orlo della scienza, trad.it. di M. Motterlini, Cortina, Milano 1995.
    Laplace, P.-S., de, Opere, UTET, Torino 1967.
    Leiss, W., Scienza e dominio, trad.it. di P.Campioli, Longanesi, Milano 1976.
    Mazzarella, E., Tecnica e metafisica, Guida, Napoli 1981.
    Miotto, A., Paracelso, il medico stregone, Casini, Roma 1951.
    Nietzsche, F., La nascita della tragedia, a cura di P. Chiarini, Laterza, Bari 1995.
    Pagel, W., Paracelso: un’introduzione alla medicina filosofica nell’età del Rinascimento, a cura di E. Garin, Il saggiatore, Milano 1989.
    Paracelso, Contro i falsi medici: sette autodifese, a cura di M.L. Bianchi, Laterza, Roma 1995.
    Paracelso, Il fondamento della sapienza; l’invenzione delle arti, a cura di B. Cerchio, Il leone verde, Torino 1998.
    Paracelso, Paragrano, ovvero, le quattro colonne dell’arte medica, Boringhieri, Torino 1961.
    Piaget, S., Saggezza e illusioni della filosofia, trad.it. Torino 1969.
    Pighetti, C., L’influsso scientifico di R. Boyle nel tardo ‘600 italiano, Angeli, Milano 1988.
    Popper, K.R., Logica della scoperta scientifica, trad.it. di M.Trinchero, Torino 1970.
    Redondi, P. (a cura di), La verità degli eretici. Duhem, Bachelard, Koyré, Foucault, Il Saggiatore, Milano 1978.
    Rigobello, A., L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, Armando, Roma 1977.
    Rossi, P., Francesco Bacone: dalla magia alla scienza, Einaudi, Torino 1974.
    Schaettel, M., Bachelard critique ou l’alchimie du rêve, L’Hérmes, Paris 1977.
    Sciacca, A., La filosofia del no, Palumbo, Palermo 1977.
    Sertoli, G., Le immagini e la realtà, La Nuova Italia, Firenze 1972.
    Severino, E., Téchne: le radici della violenza, Rusconi, Milano 1979.
    Severino, E., Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995.
    Taylor, E.S., A survey of Greek Alchemy, New York 1949.
    Tonini, S., Epistemologia della fisica moderna, Piovan, Padova 1989.
    Trevi, M., Per uno junghismo critico, Bompiani, Milano 1987.
    Vasoli, C., Magia e scienza nell’età umanistica, Il Mulino, Bologna 1976.
    Vernant, J.P., Mito e pensiero presso i Greci, trad.it. di M. Romano e B. Bravo, Einaudi, Torino 1970.
    Vico, G.B., La scienza nuova e altri scritti, a cura di N. Abbagnano, UTET, Torino 1996.
    Vinti, C., Bachelard: Ragione e realtà nella chimica contemporanea, in Philosophers in the laboratory, Proceedings of the meeting “Riflessioni epistemologiche e metodologiche sulla chimica”, Roma 1-2 Dicembre 1994, Euroma, Modena 1995.
    Vinti, C., Il soggetto qualunque, Ed. Scientifiche italiane, Napoli 1997.
    Webster, C., Magia e scienza da Paracelso a Newton, Il Mulino, Bologna 1984.













































    INDICE ANALITICO



























































































































































     





    Suivre le flux RSS des articles de cette rubrique